Di Patrizia Tocci
Diciannove mesi da quella notte. Sono ripassata per i viali. Crocchiavano le foglie sotto i piedi, tigli gialli ed arancioni. Solo vento, in una quiete irreale; brividi di freddo e di tristezza. Orizzonti e paesaggi mutati. L’occhio, sconcertato, individua nuovi dettagli. Si vive e si muore anche al tempo del terremoto.
Manifestini a lutto appesi dovunque, sul plexiglas delle pensiline vuote, sui pali dei lampioni, sui pochi muri liberi dalle transenne. Tentano di informare una comunita’ che non c’e’ più. Macerie, finestre spalancate, tetti divelti, muri scrostati e infradiciati dall’ultima pioggia. Sembra il set una di quelle puntate televisive su una civilta’ scomparsa..chissa’ che lingua parlavano gli abitanti, come vivevano.
La citta’ proibita e’ ingabbiata, sorretta da uno scheletro di ferro che vorrebbe puntellare la sua anima. Non ci riescono, tutti quei nodi di ferro e di acciaio a riannodare la vita. Non adesso. Forse domani. Forse doma’. Oggi il silenzio e’ sul volto delle case. Le case sono come un viso. Ognuna ha una sua particolare espressione.
Ho visto una casa piangente e spanciata, gonfia come un viso malato. Una pittura arancione screpolata come la biacca sul volto di un clown. Ho visto case sorridenti e serene, dai colori delicati e intatti, case con occhi spalancati a meta’, in una fissita’ di sguardo . Una casa rossa cantoniera con le persiane verdi penzolanti.
Case con il portone spalancato, come l’arco di un sorriso triste.. Sono riemerse le vecchie targhe delle vie, sotto quelle di marmo, a pezzi : targhe bianche, affrescate direttamente sui muri, ornate di piccoli puntini rossi. E’ riemersa qualche vecchia insegna, “ Vini e olio” “ biciclette” “pasta e pane”. Può darsi ci sia una saggezza in tutto questo. Via l’insegne a neon, via il marmo troppo pesante, via l’inutile. Si torna all’essenziale.
Rifletto sui verbi: abitare, dimorare, risiedere. Il mio stato di “residente” e’ dubbio ma il Provvisorio si avvia a diventare definitivo. Gia’, il tempo e per quanto tempo. Domande alle quali nessuno ha il coraggio di rispondere. Facciamo finta di vivere in un luogo che non esiste. Ma sta nei nostri pensieri, e’ fibra di carbonio delle nostre scelte, malta di paure e desideri, cemento delle nostre storie nostre, delle persone che non ci sono più, e delle persone che abbiamo amato e che amiamo. La citta’ e i piccoli centri avevano il colore del tempo; il nuovo e’ invece lucido, splendente, sfavillante, vivace.
Però i visitatori non li guardano nemmeno, questi luoghi neonati. Vogliono vedere , spiare com’era un attimo prima che si spalancasse l’inferno. Alcuni vengono per sentire il respiro della morte, allo stesso modo in cui seguono la Formula uno solo per vedere se qualcuno va fuori pista, le stesse persone che riempiono gli autobus per Avetrana.
Vogliono intravvedere qualcosa che ci sfugge perche’ coperto dalla compassione, dalla solidarieta’: alla ricerca dell’emozione forte, quella che paga, che li rende testimoni partecipi di qualcosa visto e sentito in una certa tv, rimbalzato ed amplificato da una certa stampa.
Conosciamo bene questi meccanismi. Li abbiamo visti su alcune facce che continuano ad andare in giro con il naso in aria e di fronte ai palazzi vuoti, ai negozi chiusi, alle strade e alle scuole deserte continuano a dirsi “ tutto qui?”Guardano e non vedono, come giapponesi fotografano tutto, mescolando nel tour europeo di secoli e di civilta’; un frullatore che organizza una sequenza rumorosa e casuale.
Forse non gli era mai capitato di guardare davvero la morte in diretta. Anche noi li guardiamo, ma senza curiosita’. Con un po’ di disapprovazione, un po’ di speranza e un leggero fastidio. Siamo entrati nella storia nostro malgrado, e dobbiamo continuare a restarci, con forza e con coraggio. Sopportare che facciano la visita archeologica alla citta’ per raccontare ad altri la citta’ che non c’e’.
E’ da questo luogo mentale che scrivo, registro e annoto. Come tanti altri. Tentando di vivere, all’Aquila.
( dedicato alle 309 vittime del 6 aprile 2009)