Da “il centro” del 04/02/2010, di Giustino Parisse.
Intervista alla poetessa e scrittrice Anna Maria Giancarli «I cittadini vanno coinvolti di più nella ricostruzione».
Anna Maria Giancarli e’ nata a Roma nel 1941 e vive sin da bambina all’Aquila salvo un periodo in cui ha abitato ad Avezzano. Docente, poetessa, scrittrice, operatrice culturale ha sposato Ennio Di Vincenzo artista scomparso nel giugno 2009. E’ presidente dell’Associazione culturale “ Intinerari Armonici” con la quale realizza iniziative multimediali e in particolare Poetronics (poesia elettronica) e il festival di poesia Nuove Dimensioni. Collabora come critico letterario con la casa editrice Tracce. Fondatrice e membro della giuria del premio letterario intitolato a Laudomia Bonanni. Ha pubblicato finora 9 libri di poesia.
Lei dopo il terremoto non si e’ mossa da casa sua a Sant’Elia per tre giorni. Che cosa e’ successo?
«E’ successo che mio marito, Ennio Di Vincenzo, gia’ da tempo in gravi condizioni di salute, non poteva lasciare la nostra casa, prima bisognava trovare una struttura sanitaria adeguata e fino a quando questo non e’ stato possibile io sono rimasta con lui, a Sant’Elia. L’abitazione non ha avuto danni strutturali, ma certo in quei momenti era difficile se non impossibile restare all’interno. Sono stati giorni da incubo. Devo però dire che gli infermieri che assistevano mio marito si sono presentati gia’ al mattino del sei aprile, un gesto che, visto quello che era accaduto, e’ stato veramente encomiabile e non finirò mai di ringraziare anche l’associazione “L’Aquila per la vita”».
Quando si e’ resa conto di quello che era accaduto all’Aquila?
«Subito ho capito che si era trattato di una scossa forte e distruttiva. Alcune case, sulla strada che porta alla mia abitazione, erano crollate e quindi non c’era nemmeno la possibilita’ di andare a vedere o muoversi verso altri luoghi. Da Sant’Elia però a un certo punto abbiamo visto una nuvola bianca avvolgere la citta’. E lì ho detto: abbiamo perso L’Aquila».
Quella notte eravate tranquilli o c’era la paura del terremoto?
«Mia figlia quando la sera e’ tornata a casa mi ha detto: guarda mamma che in giro per L’Aquila si dice che potrebbe esserci una forte scossa. Un po’ di paura c’era ma c’erano anche le rassicurazioni. E poi io non potevo, con Ennio in quelle condizioni, andare a dormire fuori».
Ennio Di Vincenzo, e’ morto due mesi dopo il terremoto. Secondo lei hanno influito lo stress e i disagi di quei primi giorni?
«Sì, di questo sono certa. Mio marito non era nelle condizioni di potersi spostare come se nulla fosse. A Pescara e’ stato portato in elicottero e lui aveva da sempre il terrore di volare, ma non c’erano alternative».
Quando e’ tornata per la prima volta a casa che ha fatto?
«Il mio primo pensiero e’ stato mettere in sicurezza le opere d’arte che Ennio aveva in casa e nel suo studio. E spero presto di poterne fare una mostra retrospettiva».
Rivedendo L’Aquila devastata qual e’ stato il suo primo pensiero?
«Ho pensato: questa e’ una catastrofe culturale, non solo per noi aquilani ma per l’Italia e per il mondo intero. Una delle cose paradossali di questa terribile vicenda e’ che con il terremoto tutti hanno scoperto la nostra citta’ e le sue bellezze artistiche. Nel vedere quella distruzione ogni volta mi si stringe il cuore: portali, finestre, cortili, rosoni, colonne. Tutto, o quasi, a pezzi».
Quante volte e’ tornata dentro la citta’?
«Io ci torno spessissimo, come prima ci andavo spessissimo. Essere la moglie di un artista come Ennio Di Vincenzo ti da’ anche il privilegio di scoprire con lui l’arte e le cose belle. Per me ogni angolo aveva una sua storia e una sua essenza interna».
E oggi invece?
«Oggi ci torno perché attraversando L’Aquila, lì dove e’ possibile, e’ come se volessi di nuovo calpestare il suolo, come se volessi riappropriarmi della mia citta’. Ma quello che mi da’ un enorme dolore e’, come dire, la impenetrabilita’ di molti vicoli. Lì dove una volta c’era il gusto di passeggiare e guardare oggi c’e’ un blocco, non si può entrare e la mia grande preoccupazione e’ quella di non poterci più tornare. E’ come essere in un brutto sogno».
Lei e’ nata a Roma ma gia’ a 5 anni era all’Aquila dove ha studiato e ha attraversato giovanissima gli anni Sessanta. Che citta’, dal punto di vista culturale, ricorda?
«Quelli erano anni di grande fervore culturale e non solo di una cultura “classica” ma anche di iniezioni innovative che ne fecero, grazie a grandi personalita’ aquilane e non, il punto di riferimento per artisti di ogni parte d’Italia. Il bar-caffe’ Eden, sotto i portici, non era un posto dove andare semplicemente a prendere un caffé o un apertivo ma era un vero e proprio circolo letterario-musicale-teatrale. Nei locali cittadini, anche quelli meno importanti potevi incontrare attori, pittori, musicisti di alto livello. Il ristorante Tre Marie non era semplicemente un posto dove mangiare bene ma lì dentro vi si svolgevano mostre e attivita’ culturali di ogni tipo. Anche i luoghi canonici della cultura erano pieni di fervore. Ricordo la biblioteca Tommasi – sempre stracolma – io prendevo in prestito in pratica un libro al giorno. Allora non c’erano molte possibilita’ di andare ad acquistare i volumi in libreria per cui c’era la corsa per andare a leggere l’ultimo libro arrivato in biblioteca.
Ha parlato di innovazioni. Ricorda qualche esempio in particolare?
«C’e’ stata la grande stagione di Alternative attuali. Fu lì che scoprii ad esempio Burri e Fontana ma c’era anche un gruppo di artisti aquilani che non avevano nulla da invidiare ai grandissimi. Ricordo Fulvio Muzi, Angelo Mantovanelli, Marcello Mariani, Remo Brindisi ma sono solo alcuni nomi, potrei farne un elenco lunghissimo: penso ai più giovani come appunto mio marito, Sandro Visca, Augusto Pelliccione, Peppe Pappa e via dicendo. Per la musica naturalmente come non citare il grande Nino Carloni, che fra i tanti suoi meriti ebbe l’intuizione di sprovincializzare l’a mbiente musicale aquilano e aprirlo verso l’esterno e verso quelle realta’ che possono ricevere ma soprattutto darti molto. La citta’ aveva poi anche intellettuali di alto spessore, ne cito uno per tutti, scomparso da poco, Arturo Conte».
Dunque una citta’ viva, con tanta voglia di fare?
«C’era, come in altri settori una forte voglia di rinascita. All’Aquila si svolgevano concerti di avanguardia, il gruppo poeti 63 era una presenza costante. Per non parlare poi del teatro. Negli anni Sessanta e primi anni Settanta all’Aquila non mancava nulla, ogni giorno c’era un evento, e che evento».
Dopo invece perche’ tutto si blocca?
«Ma perché poi ci si impiglia nelle maglie di un provincialismo che non da’ respiro ma soffoca tutto ciò che tenta di essere innovativo».
Può chiarire meglio il concetto?
«L’Aquila non ha mai perso quel timbro di citta’ piccolo borghese, in cui quelle che io chiamo le congregazioni, i piccoli poteri, le ripicche, appesantiscono le “ali” e – per usare una immagine molto inflazionata in tempi recenti – la citta’ non vola. Per cui accade che tante intelligenze, tante iniziative d’eccezione poi restano al palo. E questo e’ colpa proprio di quella incapacita’ di contaminarsi sia dentro le mura che verso l’esterno».
Vuol dire che i tanti, eccellenti, enti e associazioni culturali si guardano con sospetto?
«Io posso riferire di quello che ho visto e vissuto in prima persona. Ho sempre trovato una grande difficolta’ a portare dentro un settore culturale una iniziativa prodotta da un altro settore. Come dire: si può fare una rassegna di poesia e inserirci momenti musicali. Ma questo a volte sembra impossibile. Io per esempio ho organizzato un evento di “poesia elettronica” che e’ un caso tipico di contaminazione. Ho trovato più apprezzamenti fuori che in citta’. Noi, all’Aquila abbiamo grandi risorse culturali ed eccellenze di livello nazionale – per il cinema potrei citare Gabriele Lucci – e mi sono sempre detta: se ci si mette insieme uno più uno non fara’ due, ma fara’ tre, perche’ assommandosi si crea qualcosa di nuovo che potrebbe dare un “carattere” specifico all’A quila attirando l’attenzione del mondo intero e questo significherebbe anche una spinta economica da non sottovalutare».
Perche’, per esempio la Perdonanza non e’ mai decollata come evento “nazionale”?
«Ma per gli stessi motivi di cui dicevo prima: il patrimonio artistico, culturale, musicale, teatrale della citta’ e’ sempre rimasto, durante la Perdonanza – salvo qualche tentativo lodevole – un corpo separato dall’evento in sé. Ogni volta si costruisce un cartellone che non lascia traccia e ci si riduce a piccoli o grandi concerti che potrebbero essere organizzati in ogni momento dell’anno».
E’ colpa anche della politica?
«Per gran parte e’ colpa della politica. Noi abbiamo avuto quasi sempre assessori alla cultura vorrei dire – senza offesa per nessuno – scadenti. Quando c’e’ capitato qualcuno competente e’ scappato dopo pochi mesi».
Lei e’ stata una delle fondatrici del premio Bonanni, una grande scrittrice che L’Aquila ha ignorato fino al giorno della sua morte?
«Tutta l’opera di Laudomia Bonannni e’ intrisa di aquilanita’, ma era una scrittrice che precorreva i tempi con i temi dei suoi romanzi. Lei si e’ aperta al mondo. E’ L’Aquila che e’ rimasta ferma. Io il premio Bonanni lo avevo pensato proprio come il luogo della contaminazione fra scrittura, poesia, musica».
La cultura come può contribuire alla rinascita dell’Aquila?
«Premetto che non vorrei vedere in futuro una citta’ trasformata in un museo. Il centro storico dell’Aquila ma anche quelli dei centri minori devono vivere di nuovo, prima con il ritorno delle persone e poi con la ripresa di tutte quelle attivita’ economiche e culturali capaci di dare la spinta giusta per rinascere. E penso all’Universita’ che anche grazie al rettore Di Orio era e credo sara’ il presidio di una citta’ che vuole guardare al futuro e che non vuole arrendersi. E poi vorrei dire a tutti gli operatori culturali della citta’: e’ l’ora di unirsi, fare un progetto tutti insieme, ognuno nella sua autonomia ma senza guardarsi con sospetto: non c’e’ alternativa. O si va tutti insieme o non si va da nessuna parte. Io sto preparando un’antologia con 60 poeti italiani che hanno scritto ognuno una o più poesie sul terremoto dell’Aquila: questo per me vuol dire aprirsi. Se si ha un progetto forte – e in questo anche la politica deve fare la sua parte – non bisogna aver paura di spalancare le porte. E vorrei concludere con un invito a chi guida la ricostruzione: bisogna coinvolgere il più possibile i cittadini nelle scelte che verranno fatte».