Per i miracoli ripassare un’altra volta. Rovine, macerie e lungaggini ancora sfregiano i cuori di molti paesi e dei loro abitanti. La burocrazia è una palude che inghiotte le migliori intenzioni e zavorra l’ottimismo. Le lamentele ci sono e ci saranno. Lo Stato gioca a rimpiattino: c’è e non c’è. La crisi invece è sempre lì, in agguato.
Sarebbe vuota retorica dire che questo pezzo d’Emilia squassato un anno fa dal terremoto (54 Comuni tra Modena, Bologna, Ferrara, Reggio Emilia) è risorto. Come raccontano i volontari della Protezione civile del Friuli, che di botte sismiche ne sanno qualcosa (1976), «il post terremoto è un viaggio estenuante, le prime tappe sono lunghe e in salita e poi, via via, si accorciano e si addolciscono: anche voi emiliani, come noi, impiegherete anni per tornare come prima, ma tornerete».
E infatti stanno tornando. La Grande Ricostruzione è iniziata. E questa non è retorica.
L’Aquila non è poi così distante, con le sue new towns, gli scandali e le macerie sempre lì. Eppure, vista da Mirandola o da Cento, da Finale o da Cavezzo, pare lontana anni luce. Qui si sonomossi in direzione contraria: tutela delle identità territoriali, coinvolgimento degli enti locali, priorità alla scuola (nessuno dei 70 mila studenti ha perso un giorno di lezione), lotta alla delocalizzazione delle imprese, trasparenza degli appalti a costo di appesantimenti procedurali.
Un simbolo ci vuole sempre, anche per non perdersi. La Torre di Finale Emilia lo è stata e continua ad esserlo. Un anno fa era letteralmente sbriciolata. Adesso le hannomesso le stampelle. Proprio come questa terra: incerottata, ma viva. Per capire bisogna ricordare. Furono tre le scosse principali: il 20 maggio 2012 (5.9 della scala Richter), il 29 maggio (5.8) e il 3 giugno (5.1).
Morirono giovani, pensionati, operai che facevano il turno di notte, imprenditori, tecnici, un sacerdote che cercava di salvare una reliquia: 27 vittime, quasi 300 feriti. Crollarono o vennero seriamente danneggiati decine di capannoni, 147 campanili (altro simbolo), 450 scuole, case, negozi, chiese, 39 sedi municipali. Cambiò l’orizzonte della Bassa. E andò in frantumi una vetrina economica che, tra biomedicale, ceramica, agroalimentare e meccanica, esibiva 30 mila imprese, 130 mila addetti pari al 10% del Pil regionale e più dell’1% di quello nazionale: 5 mila aziende lesionate per 25 mila lavoratori.
Ora, dopo un anno (e 359mila tonnellate di macerie rimosse), sono i numeri a riempire di concretezza quella che pareva solo una smargiassata («Teniamo botta!»). Delle 17mila famiglie (pari a 45 mila persone) costrette a lasciare le loro case, non più di 60 sono tuttora ospitate in strutture alberghiere. Un nucleo familiare su tre (5 mila) è rientrato nella propria abitazione. Alcune migliaia vivono nei moduli prefabbricati urbani alle porte dei paesi, altri in quelli rurali (per le imprese agricole), altri in appartamento con contratto d’affitto a carico del Fondo per la ricostruzione. Dei 36 campi d’emergenza, l’ultimo è stato chiuso nell’ottobre scorso.
Sono stati 39 mila gli edifici controllati, di cui 14mila risultati inagibili: già avviate le pratiche per 2 mila dei 6 mila immobili parzialmente impraticabili, mentre i tempi sono più lunghi per quelli gravemente danneggiati (7.900 edifici, 620 le pratiche in corso). Delle 22 zone rosse, 16 sono state riaperte e in altri 6 paesi è stata ripristinata la strada principale. Sono i soldi il motore della ricostruzione.
«Siamo partiti da zero, siamo passati a garantire l’80% del rimborso, siamo arrivati al 100% e ora dico che nessuno rimarrà senza soldi. So che ci sono critiche per la troppa burocrazia, ma stiamo sperimentando un sistema inedito per legalità e trasparenza. C’è ancora tanto da fare»: così Vasco Errani, presidente pd della giunta emiliano-romagnola e regista della ricostruzione assieme ai sindaci del cratere sismico.
Le risorse messe finora a disposizione ammontano a 10 miliardi (ma è già pressing sul governo Letta per ottenere un altro miliardo da destinare agli edifici pubblici, religiosi e culturali). Nel budget da 10 miliardi rientrano 6 miliardi della Cassa Depositi e Prestiti per contributi a fondo perduto a famiglie e imprese, 2,5 miliardi del bilancio dello Stato, 670 milioni di solidarietà dell’Unione europea, 255 milioni di contributi da altre regioni, 37 milioni ricavati dalla gara di solidarietà a colpi di sms e concerti.
A questi si aggiungono altri 6 miliardi di prestiti della Cassa per il pagamento delle imposte con interessi a carico dello Stato. Le grandi multinazionali del biomedicale sono ripartite, anzi, non si sono mai fermate (chi trasferendosi in sedi provvisorie, chi piazzando i macchinari in tensostrutture). Il settore ha riacquistato il 90% della produttività, la perdita di posti non ha superato l’1,5%, anche se i ricavi sono scesi del 5,5%. Decisamente più complicato per i piccoli e imedi, costretti a dare fondo a tutti i loro risparmi per la messa in sicurezza delle aziende. Dura anche per gli agricoltori, per non parlare poi dei commercianti e degli artigiani dei centri storici devastati (più di 80, secondo la Cna di Modena, quelli che non hanno più riaperto). Un dato dà speranza: delle 40 mila persone finite in cassa integrazione dopo il sisma, 37 mila sono state reintegrate. |
«L’emergenza ha funzionato —afferma il presidente di Confindustria Modena, Pietro Ferrari —. Le grandi imprese hanno marciato spedite. Il problema riguarda le più piccole, che hanno chiesto contributi per la messa in sicurezza e ora sono alle prese con quel terribile mostro che è la burocrazia». Neanche la scuola si è fermata. All’inizio ricorrendo anche a soluzioni avventurose (lezioni negli alberghi o sotto i tendoni del circo). Poi trovando un assetto, anche se provvisorio: quasi 18 mila studenti hanno vissuto il primo anno post sisma nelle 28 «scuole temporanee» e nei 30 «prefabbricati modulari» che sostituiscono gli istituti danneggiati. Come dicono qui, «quando la campanella torna a suonare, torna il battito della comunità».
fonte: blogncc.com