Il piano di ricostruzione è fermo. La città è abbandonata. I soldi per farla tornare a vivere sono finiti. E come se non bastasse, sono tornate le scosse. Viaggio in un territorio martoriato.
di Emilio Fabio Torsello, L’Espresso, 18 febbraio – Basterebbe andare a vedere. Basterebbe camminare per le vie del centro storico dell’Aquila, di Onna, di San Gegorio, di Paganica, di ciò che resta di Tempèra, per misurare le bugie di quanti raccontano che “L’Aquila è stata ricostruita”, che “l’obiettivo è stato raggiunto”. La verità è che nella città più martoriata dell’Abruzzo e nelle frazioni, tutto è imbalsamato, puntellato, tenuto su da pesanti travi di legno su cui scolorano i nomi incisi dei gruppi dei Vigili del Fuoco che le costruirono.
“Non ci sono i soldi”. Il Piano di Ricostruzione dell’Aquila e delle frazioni già approvato, a quasi quattro anni dal terremoto è per lo più fermo. “Sono finiti i due miliardi stanziati – spiega Pietro Di Stefano, assessore del comune dell’Aquila alla Ricostruzione – e adesso si naviga a vista.
Manca un afflusso costante di denaro e bisogna contrattare anno per anno con il Governo. Adesso, ad esempio, una delibera del Cipe del dicembre scorso ha sbloccato 150 milioni, un residuo di contabilità che non ci era stato assegnato dal Commissario, soldi che sono stati già impegnati. Siamo in attesa di altri 660 milioni ma tutto è sempre molto precario”. A mancare, infatti, è un piano strutturato di finanziamento che invece si ridefinisce anno per anno: “queste procedure non aiutano la programmazione degli interventi. Per il sisma in Emilia – prosegue – è stata decisa un’accisa in modo da reperire subito i fondi per le popolazioni, vorrei capire per quale motivo nel 2009 si decise che per un territorio come il nostro, così pesantemente colpito dal terremoto, interventi straordinari di quel tipo non erano necessari. Il risultato è una contrattazione sui fondi che snerva qualsiasi ampio respiro di ricostruzione”. |
Ci si prepara alle tende. E come se non bastasse sono tornate le scosse, lo sciame ha ricominciato lo scorso sabato 16 febbraio. La terra ha tremato cinque volte in una notte, la scossa più forte alle due, mentre in molti dormivano, 3.7 Richter [LEGGI L’ARTICOLO]. Poi altre quattro. In tutto undici in poco meno di 48 ore. Il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, ha invitato i cittadini “ad agire secondo coscienza, con la consapevolezza che il Comune è pronto a garantire riparo con strutture adeguate e personale preparato”. E ha spiegato di aver allestito tre tende riscaldate per quanti volessero passare la notte fuori da casa ma senza patire il freddo. L’impressione è che l’emergenza non sia mai davvero finita. Che sia stata solo un annuncio, un po’ come quando dalla portaerei Bush dichiarò vinta la guerra contro Saddam, la realtà successiva avrebbe raccontato attentati e morti per anni.
“In classe in 10 fumano ‘roba’”. A sottolineare come all’Aquila l’emergenza non sia terminata, soprattutto a livello sociale, sono anche gli studi di medicina sul disagio psichico, con frequenti trattamenti sanitari obbligatori e la diffusione degli stupefacenti pesanti e leggeri. “La droga all’Aquila c’è sempre stata, racconta uno studente di uno dei licei della città che chiede di restare anonimo, ma dopo il terremoto la loro diffusione è aumentata vertiginosamente. A scuola gira anche cocaina. Una volta, prosegue, a un nostro compagno si ruppe una bustina di droga nello zaino. Se vuoi drogarti sai dove andare. Solo nella mia classe – aggiunge dopo un attimo di silenzio – almeno dieci persone fumano “roba” e in tutto siamo poco più di venti alunni”. |
Scuole precarie. E proprio nel centro dell’Aquila c’era uno dei licei principali della città, dentro lo stabile di Palazzo Quinzi, oggi completamente inagibile. “Era stato ristrutturato pochi anni prima del terremoto – spiega Liliana Farello, 19 anni, una studentessa universitaria, fino all’anno scorso al liceo Cotugno, che la sera mi accompagna a vedere la sua vecchia scuola – durante il terremoto sono crollate anche le scale: avrebbe potuto ospitare poche centinaia di persone ma dentro eravamo più di mille”. E le vie di fuga: una stradina larga meno di una transenna, via Antinori, stretta tra la scuola e un altro edificio, anch’esso puntellato. Poco distante, davanti la chiesa di Santa Margherita, una fontana perfettamente ristrutturata svetta in mezzo al nulla, tra puntellamenti e travi che sorreggono palazzi vuoti. Su tutto regna un silenzio spettrale che di sera diventa un’assenza di vita opprimente. Interrotta in lontananza dal motore delle camionette dei militari che con il riscaldamento acceso, si proteggono dal freddo. Anche loro sono ancora lì. E gli istituti scolastici adesso sono stati trasferiti nei moduli provvisori, i cosiddetti Musp.