MACERIE AQUILANE, LEZIONI NEWYORKESI: L’ARTICOLO DEL N.Y.TIMES TRADOTTO

Pubblichiamo la traduzione (a cura di Giovanni Incorvati) di un articolo del New York Times del dicembre scorso su L’Aquila, di cui era apparsa sulla stampa locale una versione che travisava gli obiettivi polemici dell’articolo.

Macerie aquilane, lezioni newyorkesi

di Michael Kimmelman

Testo originale: In Italian Ruins, New York Lessons

“New York Times”, 30 november 2012

Spazialmente L’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo, nel centro dell’Italia, è assai lontana da Rockaways e Staten Island, le aree dello Stato di New York più colpite dall’uragano Sandy, ma il racconto della sua battaglia per la rinascita dopo il terremoto suona come un avvertimento per New York.


Il terremoto dell’aprile 2009 ha ucciso centinaia di persone, lasciato decine di migliaia di Aquilani senza casa, e calato la saracinesca sul vasto e elegante centro storico, cuore culturale e economicodella città. Sono state costruite case “temporanee”: le “new town”, come si vantava di chiamarle il Presidente del Consiglio italiano di allora, Silvio Berlusconi, in riferimento agli appartamenti tristi, isolati, minuscoli e costosi che aveva commissionato nei dintorni della città per gli Aquilani sfollati, in lunghe distese di non luoghi tagliati fuori dalle maggiori vie di comunicazione e dalla vita cittadina. Non era stata fatta nessuna infrastruttura, né consultazioni pubbliche su come combattere la disgregazione, o su cosa salvare e cosa sacrificare, e in che modo.

Da allora le autorità italiane hanno continuato a promettere alla città il recupero della sua identità, ma finora tra le centinaia di edifici danneggiati del centro storico ne sono stati riparati meno di una dozzina. Di fatto è una città fantasma. Senza essere mai stata una mecca del turismo, nonostante il valore considerevole delle suechiese e delle sue piazze, L’Aquila era una città operosa di circa 75.000 abitanti, sede di un’università e di molte famiglie radicate lì dal medio evo.

Adesso i turisti arrivano per spiare i detriti. Quella della “pornografia delle rovine” è diventata la nuova industria locale.

Un segnale positivo è arrivato a ottobre, quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è venuto a inaugurare il nuovo auditorium progettato da Renzo Piano in un parco nel centro storico, una delle poche iniziative urbanistiche dopo il sisma. Napolitano ha criticato le “new town” poiché sottraggono attenzione e risorse alla sfida principale, quella di ridare vita al centro della città.

Dopo una serie di fallimenti delle autorità centrali ora il controllo delle attività di ricostruzione è passato al governo regionale. Ma, come avviene dopo ogni disastro,  la credenza nei poteri magici dei politici rimane un problema per i residenti, mentre fuori dalla regione i ricordi del terremoto diventano sempre più pallidi.

Che rilevanza ha la questione per la zona di New York? Nonostante il bisogno di grande cambiamento e di trasparenza di fronte al dato scientifico dell’aumento del livello dei mari e della crescita degli uragani, le autorità hanno seguito in larga parte l’esempio degli Italiani, promettendo ai proprietari delle case danneggiate di ricostruire in modi più o meno sicuri i quartieri devastati. Hanno ammesso tutto, eccetto il fatto che una politica di sfollamento e di reimpianto della popolazione è politicamente impossibile.

Sono stato a L’Aquila diverse volte, la prima un paio di giorni dopo il terremoto, più recentemente prima dell’inaugurazione dell’auditorium di Renzo Piano, per gettare uno sguardo mentre era in costruzione e per parlare con i residenti e con Pietro Di Stefano, assessore alla ricostruzione e alla pianificazione del comune. “Siamo entrati in un labirinto di cose assurde”, mi dice. “Un nuovo progetto di città era necessario.”

Poi parla del restauro di qualche fabbricato qua e là nel centro storico. Gli sembra inutile discutere di demolire case e di costruirne nuove, mentre i proprietari ancora invocano denaro dallo stato. A me questo non suona affatto come un nuovo piano urbanistico.

Accenno al progetto di Renzo Piano. Ideata dall’architetto e da Claudio Abbado, il direttore d’orchestra suo amico, per riportare nel centro storico un po’ di cultura e di vita notturna, la sala di 240 posti unisce cubi multicolori a padiglioni di abete rosso del Trentino, la provincia italiana sponsor del progetto. (Alla cerimonia di inaugurazione la sala non era ancora completata e, come spesso accade in Italia, è stata chiusa subito dopo. Per l’anno prossimo, pare, si prevede di portarla a termine e di organizzarvi concerti).

Dal punto di vista ingegneristico l’auditorium, una vera e propria anomalia nel centro storico aquilano, è stato in parte pensato come prototipo di un tipo di costruzione in legno, riciclabile e antisismica, che, in modo ben fatto e a poco prezzo, prenderebbe il posto di case in pietra del centro dove la gente potrebbe finalmente fare ritorno.  Il costo dell’auditorium è, a metro quadro, un quarto di quanto sono costate le “new town”.

All’idea delle costruzioni in legno Di Stefano si irrigidisce. Come col cane di casa, prende a fare carezze al primo edificio in pietra a portata di mano. “Impossibile”, mi dice.

Insiste: “Questa è una città di pietra. Queste case sono state costruite qui dalle famiglie nel corso di centinaia d’anni. Hanno le loro storie. Cosa sarebbe Firenze senza il campanile di Giotto, o Pisa senza la torre? Le costruzioni sono ciò che noi siamo, la nostra identità.”

Una città è l’insieme dei suoi edifici? O è la vita che vi si svolge dentro, intorno? L’Aquila ha architetture di pregio, che comprendono chiese barocche e edifici pubblici nel segno del razionalismo della prima metà del Novecento. Potrebbero essere restaurati e riaperti – un paio lo sono già. Ma sono gli spazi pubblici, le vie, le piazze che rendono particolare la città. Le autorità che avrebbero il compito di far rivivere l’identità culturale del centro storico sono fissate con i fabbricati piuttosto che con l’urbanistica, e non pare che se ne rendano conto. Lasciano morire L’Aquila un poco alla volta e ogni giorno di più.

E così ora nelle mattine di sole persone anziane fanno percorsi di chilometri per incontrarsi nell’antica Piazza Grande. Passeggiano per il Corso, come facevano prima del terremoto. Poi, a fine giornata, si disperdono verso le case, nuove, disseminate, lontane. L’avvocato Antonio Antonacci, ora in pensione, chiacchiera con tre amici in questa Piazza Duomo deserta. Mi fermo per parlare.

“È l’unico centro storico che ancora abbiamo,” dice.

I newyorkesi non hanno un attaccamento particolare per antiche case di pietra. La città ha una storia di audacia e di adattabilità. L’una e l’altra hanno alimentato la prosperità della regione. Ma la trascuratezza progettuale del secolo scorso ha prodotto scetticismo in molti riguardo alla possibilità di cambiamenti infrastrutturali su larga scala.

Detto questo, alcuni proprietari di case devastate a New York hanno già reso noto che stanno pensando di ricollocarsi in quartieri più sicuri, e Shaun Donovan, il ministro incaricato dal Presidente Obama di guidare a livello federale le attività di soccorso dopo l’uragano Sandy, sembra aprirsi a grandi idee. Una calamità può anche essere un’occasione per politici ambiziosi, non per un presidente al secondo mandato, ora libero di pensare con ottiche decennali.

L’Aquila può essere diversa da New York sotto profili molto importanti, ma questi ultimi anni suggeriscono che un disastro non si limita a distruggere case e a uccidere. Mette alla prova l’immaginazione e la capacità di cambiamento di una città e di un intero paese.

(Traduzione di Giovanni Incorvati)

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