SENTENZA DI L’AQUILA: LE RESPONSABILITÀ DELLA SCIENZA E DELLA PROTEZIONE CIVILE

grandi_rischi_condannatiGiovanni Incorvati

Prima del terremoto. Le responsabilità della scienza e della Protezione Civile, in margine alle motivazioni della sentenza di L’Aquila

Qual è il posto della prevenzione nell’ordinamento giuridico? Quali conseguenze ne dovrebbero derivare? E quali ne sono state tratte in Italia, in particolare alla vigilia del terremoto del 6 aprile 2009 a L’Aquila, e poi nel processo a carico di sette componenti della Commissione per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi?

La distinzione tra prevenzione primaria, secondaria e terziaria, tratta dal sistema penale, è comune, ormai da tempo, anche al sistema sanitario e a quello della protezione civile. In Italia viene ricavata sia dalla nuova configurazione che l’articolo 27 della Costituzione dà agli Istituti di Prevenzione e Pena attraverso la legge del 1975, sia da leggi come quelle istitutive del Servizo Sanitario Nazionale (1978) e del Servizio Nazionale della Protezione Civile (1992), in attuazione degli articoli 32 e 9 cost. Ma la distinzione, oltre a questi tre campi principali di applicazione, può essere estesa a tutta una serie di altri aspetti della vita sociale.

La prevenzione primaria ossia la prevenzione “propriamente detta”, riguarda la fase che precede la commissione del reato, o il manifestarsi della patologia, o il verificarsi del danno collettivo, e è un campo vasto che abbraccia sia gli aspetti con un legame più immediato con l’evento, che quelli più distanti. La prevenzione secondaria concerne il processo penale e le sue varie fasi fino all’irrogazione della pena definitiva, oppure la diagnosi e la prescrizione della terapia, ovvero la proclamazione dello stato di emergenza con tutte le misure connesse. La prevenzione terziaria infine attiene alla rieducazione, alla riabilitazione, alla ricostruzione. Quest’ultimo tipo di prevenzione deve rimanere accuratamente distinto dalla prevenzione secondaria, dato che esse hanno finalità diverse. Piuttosto, in quanto la fine di ogni ciclo non solo lo chiude, ma ne apre uno nuovo, si riallaccia e coopera con la prevenzione del primo tipo, al fine di evitare la “recidiva” individuale o il ripetersi e l’ampliarsi del danno collettivo (feedback negativo).

Ora la realtà storica, al posto di tale stretta cooperazione della prevenzione terziaria con quella primaria, ci mostra sempre più spesso, specialmente in Italia, la marginalizzazione di entrambe. Allo stesso tempo la prevenzione secondaria, invece di rappresentare una fase provvisoria e intermedia, uno stato di eccezione di semplice supporto alle altre due, tende a coprire il campo riservato a queste e assurge a perno fondamentale, su cui dovrebbe reggersi e girare tutto il sistema.

Da un lato, attraverso un’inversione di priorità, gli strumenti di prevenzione primaria vengono ridotti al minimo, in modo da esaltare quelli di prevenzione secondaria. Allora non vale più il detto secondo cui prevenire è meglio che punire o curare. Tutto al contrario, appare assai più facile e sbrigativo punire e curare, piuttosto che porsi il problema di prevenire.

Dall’altro lato, le operazioni di prevenzione terziaria, separate da quelle di prevenzione primaria, vengono confuse con quelle di prevenzione secondaria e assimilate a esse. In tal modo si attivano meccanismi di feedback positivo, attraverso cui la “recidiva” o il ripetersi del danno, lungi dall’essere impediti, vengono piuttosto esaltati. Di qui il cronico sovraffollamento delle carceri e dei presìdi di pronto soccorso in Italia, così come delle liste degli sfollati dalle zone terremotate, di cui il centro storico di L’Aquila è un caso paradigmatico.


Queste inversioni e queste confusioni hanno certo radici lontane, ma assumono oggi caratteristiche nuove. Esse appaiono nel modo più chiaro quando si esamina ciò che è avvenuto e sta avvenendo a  L’Aquila. Qui, dopo il terremoto, l’emergenza abitativa è stata invocata per legittimare il progetto C.a.s.e., realizzato in deroga alle normative esistenti, in modo da far passare come ricostruzione la realizzazione di una serie informe di aggregati abitativi pseudo-antisismici e poco duraturi. La vera ricostruzione, invece, quella post-emergenziale che dovrebbe prevenire i possibili danni di futuri terremoti, è ancora di là dall’essere perfino progettata. La Procura indaga da tempo su tutti gli illeciti commessi sulla base della truffaldina commistione di emergenza e ricostruzione.

Ma intanto il 22 ottobre scorso è giunto a conclusione il procedimento a carico dei componenti la Commissione Grandi Rischi, celebrato in primo grado presso il tribunale di L’Aquila, che si presenta connesso in più punti con le indagini sulla cosiddetta ricostruzione. Infatti entrambi riguardano non solo le attività di alti responsabili della Protezione Civile come Guido Bertolaso, ma anche quelle di due componenti della Commissione Grandi Rischi, Gian Michele Calvi e Mauro Dolce, che avevano importanti interessi nelle ditte appaltatrici del progetto C.a.s.e., e che con gli altri cinque componenti della Commissione sono stati condannati per  omicidio colposo plurimo e per lesioni colpose.

Il processo da poco concluso, per i suoi aspetti inediti, ha avuto grande risonanza a livello internazionale, e molto più che in Italia, soprattutto per il fatto che, agli occhi dei commentatori più avveduti, riguarda la fatale inversione di priorità tra prevenzione primaria e secondaria attuata dalla Protezione Civile e dal Governo (si veda in appendice il mio articolo di documentazione bibliografica: L’Aquila’s Earthquake Trial on Risk Communication. Web Documents on the International Debate). Se però consideriamo da questo punto di vista l’esito di tale processo, sono piuttosto i componenti della Commissione per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, istituita presso la Protezione Civile, a essere stati ritenuti i più immediati responsabili dell’inversione nei due tipi di prevenzione. Sono loro che, attraverso il proprio comportamento, in violazione delle norme che regolano l’organismo di cui facevano parte, avrebbero causato colposamente la morte di 29 delle 308 vittime del sisma e le lesioni di altre quattro persone. Ora, il 17 gennaio, sono state pubblicate le motivazioni del Tribunale che permettono una ricostruzione più precisa dei fatti e la loro valutazione politica.

Due commissioni scientifiche, un’unica operazione politica

La Commissione per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, alla luce delle norme con cui è stata istituita, in primo luogo ha un obiettivo, che è enunciato chiaramente nel suo stesso nome. Si tratta della previsione e della prevenzione del rischio per la popolazione, e non della previsione dei terremoti, come invece la propaganda governativa e mediatica ha cercato di far credere, anche su scala internazionale, grazie alla generale mancanza di riflessione su tali temi.

In secondo luogo, destinatari delle sue comunicazioni non sono né i sindaci, né il pubblico, ma unicamente gli organi centrali della Protezione Civile. Ora, le modalità con cui quest’ultima organizzò a L’Aquila la riunione della Commissione del 31 marzo 2009, a seguito di un “crescendo” dello sciame sismico che preoccupava sempre più la popolazione, contravvenivano a entrambi questi punti.

In primo luogo venne invertito lo schema di comunicazione previsto dalla legge. La Commissione, invece di esserne essa stessa fonte, diventava destinataria dell’input della Protezione Civile. La Commissione così, facendo leva sulla propria autorevolezza scientifica, avrebbe dovuto comunicare dapprima con le autorità locali, a cominciare dal sindaco di L’Aquila, e poi in conferenza stampa direttamente con il pubblico più ampio. Da parte loro, i dirigenti della Protezione Civile, invece di fare da interfaccia comunicativa tra l’ambito scientifico e quello politico-amministrativo e dei cittadini, proponendo concrete misure di prevenzione e di partecipazione della popolazione, si tiravano fuori da tale responsabilità e lasciavano agli scienziati in quanto tali il compito di comunicare col pubblico.

In secondo luogo la Commissione si sarebbe concentrata sulla comunicazione della prevedibilità dei terremoti, attività non prevista tra le sue competenze. Mentre invece essa si sarebbe occupata della previsione e della prevenzione del rischio solo per tranquillizzare la popolazione, creando così una doppia, esiziale inversione in relazione ai compiti indicati nel proprio nome. I motivi di tale operato e la strategia generale erano chiari: di fronte al pubblico la parola degli scienziati sarebbe stata ben più persuasiva di quella delle autorità. Soprattutto, quanto più inaspettato fosse sopraggiunto il terremoto, di cui gli esperti conoscevano l’alta probabilità, tanto più necessario sarebbe apparso lo stato di emergenza da proclamare.

Quando poi il terremoto arrivò realmente, il Governo instaurò un tale stato di eccezione da stravolgere lo stesso schema funzionale e operativo che regola l’attività della Protezione Civile in caso di calamità. Col commissariamento vennero estromesse le autorità locali competenti, a cominciare dai sindaci, attraverso i quali avrebbe dovuto essere instaurato un rapporto interattivo di partecipazione della cittadinanza.


La Protezione Civile assunse le redini, come padrone assoluto della situazione, in deroga a tutte le normative esistenti, a cominciare dalla legge che ne definisce le funzioni. Emergenza e ricostruzione, invece di essere trattate come due fasi temporalmente ben distinte, vennero intrecciate l’una con l’altra in forme militarizzate, all’interno di un secondo corto circuito comunicativo.

Contemporaneamente per la Presidenza del Consiglio e per la Protezione Civile che ne dipende diventò necessario allargare la cosiddetta “operazione mediatica”. Venne subito lanciata una campagna su scala internazionale, con cui legittimare ex post, grazie all’intervento di autorevoli scienziati, lo stravolgimento di funzioni che era stato operato nell’attività della Commissione Grandi Rischi.

L’ordinanza della Presidenza del Consiglio del 21 aprile 2009 istituiva l’International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection, col compito di fare il punto sulle attuali conoscenze nel campo della previsione dei terremoti e di “indicare linee guida per l’utilizzo di possibili precursori di forti terremoti per indirizzare azioni di protezione civile”. Anche qui, in aperta opposizione ai compiti della commissione italiana, volti alla previsione e prevenzione del rischio, si cercava di spostare l’attenzione dei massimi esperti internazionali sul problema della previsione dei terremoti, per legittimare l’idea dell’impossibilità per la Protezione Civile di entrare in azione, se non dopo il verificarsi di eventi catastrofici.

Fin dal 17 giugno 2009 l’attività della Commissione internazionale e i contenuti delle sue prime riunioni furono ampiamente pubblicizzati dalla Protezione Civile italiana, ma molto meno le sue conclusioni dal titolo Risultanze e raccomandazioni del 2 ottobre 2009, così come il rapporto finale del 30 maggio 2011, pubblicati sul sito della PC esclusivamente in lingua inglese, e per la prima volta tradotti in italiano per la Procura di L’Aquila, quando questa la richiese nel corso della sua inchiesta. Si trattava infatti di nascondere il più possibile il fatto che tale Commissione non parlava solo di imprevedibilità dei terremoti, ma, nelle sue conclusioni finali, andava ben oltre il compito assegnatole e, in particolare, nell’ottava e ultima guideline (H – Comunicazione al pubblico delle informazioni sui terremoti) forniva precise raccomandazioni alla Protezione Civile in merito alla comunicazione del rischio al pubblico. In tal modo essa sconfessava indirettamente, ma con chiarezza, l’operato della Commissione nazionale italiana in occasione della famosa riunione a L’Aquila.

Il confronto tra le opposte conclusioni delle due commissioni scientifiche determinò una svolta nelle indagini. Infatti le linee guida dell’organismo internazionale coincidevano con le norme dell’ordinamento interno che regolano il funzionamento della Protezione Civile e della Commissione Grandi Rischi, e confermavano l’adeguatezza degli obblighi di informazione da esse previsti, se confrontati con gli standard internazionali. L’impostazione dell’inchiesta giudiziaria rispondeva ai canoni scientifici più avanzati e andava nella direzione esattamente opposta rispetto all’”operazione mediatica” che il Governo e la Protezione civile avevano cercato di imporre prima in ambito interno e poi in quello internazionale.

Mancata comunicazione del rischio e nesso causale

Che rilevanza ha il principio di precauzione per il nesso di causalità? A L’Aquila si è sempre saputo che gran parte del patrimonio edilizio era estremamente fragile rispetto al rischio sismico elevato del sito. In assenza di interventi pubblici per rimediare a tale situazione, e in presenza di scosse ripetute, soprattutto quando hanno l’andamento di un “crescendo”, agli occhi dei privati cittadini la
misura di prevenzione più efficace è sempre rimasta quella di star lontani dalle mura domestiche. La comunicazione del (non) rischio effettuata all’indomani della scossa più forte registrata fino a allora (30 marzo, magnitudo locale 4,1), con la presenza fisica degli scienziati a L’Aquila e con l’avallo del sindaco della città, accompagnata per giunta dall’invito a brindisi di augurio, fece dimenticare tale fragilità strutturale.

Come ha affermato un testimone oculare, la comunicazione ebbe l’effetto di “anestetizzare” il più elementare principio di precauzione che viene tramandato tradizionalmente nella popolazione. Per quanto riguarda 29 tra le persone decedute nel sisma, il giudice ha ritenuto la documentazione raccolta su ciascuna di esse sufficiente a dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra la comunicazione ufficiale da parte degli scienziati e il cambiamento di opinione sulla base di una nuova percezione del rischio, che aveva portato alla decisione di tornare a dormire in casa.

Ma, al di là della dimostrabilità probabilistica di tale nesso, la decisione del giudice conferma un ben noto paradosso. La centralità assunta dalla prevenzione secondaria (in particolare nel campo della protezione civile) viene rimessa in discussione non dalla politica, ma dai giudici, attraverso gli strumenti della prevenzione secondaria stessa, ossia quelli più tradizionali del sistema penale. Rimane tuttavia, come un fatto indiscutibile, il valore politico assunto da questo processo anche al di fuori dell’Italia.

Per un verso, una forte accusa viene lanciata, anche se in modo in gran parte implicito, nei confronti della manipolazione “mediatica” sia del principio di precauzione che della scienza stessa da parte del potere, con un rovesciamento dei rapporti tra i vari tipi di prevenzione che è funzionale al conflitto di interessi in gioco.

Per altro verso, indipendentemente dalle risultanze dei processi connessi, che sono ancora in corso e riguardano gli illeciti della Protezione Civile, sono proprio la mancata autonomia e le responsabilità della scienza che vengono in primo piano in questo processo. Nel caso specifico, emerge l’obbligo, prima di tutto deontologico, degli organismi scientifici di non sottostare ai diktat provenienti dalle istituzioni politiche, e l’obbligo di non farsene strumentalizzare magari attraverso la messinscena di competenze, come quelle della comunicazione del rischio al pubblico, che non si possiedono. Tali comportamenti non possono che far aumentare enormemente il rischio per tutti, con esiti spesso catastrofici.

Link correlati:

Le motivazioni del Tribunale di L’Aquila:
http://www.6aprile.it/news/2013/01/18/depositate-le-motivazioni-della-condanna-alla-commissione-grandi-rischi.html

La requisitoria dei PM:
http://www.inabruzzo.com/REQUISITORIA.pdf

Il fondamentale documentario di Riccardo Iacona sul processo di L’Aquila andato in onda il 20 gennaio 2013 su Rai3 nel corso della trasmissione Presa Diretta:
http://www.6aprile.it/media/video/2013/01/21/video-ecco-la-puntata-di-presa-diretta-su-laquila-20-1-2013.html

Giovanni Incorvati