Quasi nessuno ha reagito allo stesso modo.
Il 6 aprile 2009 il sole sorse alle 6 e 45. Nelle tre ore e un quarto di buio assoluto che seguirono il terremoto – i superstiti intravidero solo una colonna di fumo rossastro salire dalla città vecchia -, ognuno si comportò alla sua maniera. Chi si mise freneticamente a scavare. Chi rimase come imbambolato, incapace di reazioni. Chi radunò i figli e partì subito per il mare. Chi non voleva saperne di muoversi da casa. Chi ancora oggi non è tornato (almeno un migliaio), tra cui qualcuno che non risponde neppure più al telefono se vede sul display 0862, il prefisso dell’Aquila. Chi vorrebbe che la sua casa fosse ricostruita dov’era e com’era, anche sulla faglia di Paganica, che i geologi – uno di loro l’ha riconosciuto la scorsa settimana al processo – neppure sapevano esistesse. Quelli (314) che sono ancora in albergo. Quelli che hanno preso il contributo per l’affitto e vivono nella cantina del fratello. Chi ha appeso le chiavi del vecchio appartamento alla transenna sul corso, come i palestinesi all’ingresso dei campi profughi (una scena che ha impressionato David Grossman, lo scrittore israeliano). E chi si è costruito la casa con materiale fai-da-te.
Qualcuno si è lasciato morire. Tra gli anziani l’aumento dei decessi è un dato statistico, fa notare Pierluigi Biondi, sindaco di Villa Sant’Angelo, il secondo comune più colpito. Qualcuno ha cercato una soluzione al di fuori di sé. Tra i giovani, racconta Biondi, è cresciuto il consumo di droghe, alcol, psicofarmaci. Altri hanno semplicemente ricominciato a fumare. Chi ha paura a entrare in un luogo chiuso, chi non prende più l’ascensore. Sono cresciuti anche gli incidenti stradali: prima metà degli aquilani giravano solo a piedi, in un centro storico tra i più vasti d’Italia; ora girano solo in macchina.
Immaginate una città rimasta senza Cattedrale e senza Comune, senza liceo, università, biblioteca, Poste, teatro, senza ristoranti, bar, caffè, pub, pizzerie. E immaginate che tutto questo sia stato duplicato, in forme ovviamente meno belle e più scomode, sul «frontestrada» come si usa dire, in un dedalo di rotonde che da queste parti non si erano ancora viste.
Sono state duplicate anche le case. In 19 mila vivono nelle «new town»: confortevoli, neanche brutte, ma circondate dal nulla, senza una panetteria, una farmacia, una scuola (tranne l’asilo costruito dalla Fiat). Bazzano, Sant’Elia 1, Paganica 1, Paganica 2, Paganica 3: le hanno chiamate come le frazioni, eredi degli antichi castelli che fondarono la città, 99 secondo una tradizione forse inventata (99 è il numero magico dell’Aquila: 99 castelli che in città crearono 99 chiese, 99 piazze, 99 fontane…). L’unico punto di aggregazione è una tenda, con il calciobalilla, il televisore, il distributore di bibite a fare da bar, un tavolo da riunioni che la domenica diventa altare per la messa. Le vie si chiamano Fabrizio de André, Vittorio Gassman, Lucio Battisti.
Sostiene il sindaco Massimo Cialente che il momento peggiore fu all’inizio del 2010. Passata quella notte terribile, gli aquilani seppellirono i loro 309 morti, e non ebbero tempo di rendersi conto d’altro. Vennero qui un po’ tutti. Berlusconi, più volte. I cantanti. La Nazionale di calcio. I leader del G8, ognuno con una promessa: la Merkel si impegnò a ricostruire Onna, Sarkozy la chiesa delle Anime Sante, Putin il palazzo Ardinghelli, Obama a sostenere borse di studio per i ragazzi dell’università. I volontari della Protezione civile cucinavano tre volte al giorno, «passavamo il tempo a mangiare» dice Cialente, che è medico e assicura che pure colesterolo e trigliceridi in media sono aumentati. Per costruire le new-town si lavorò giorno e notte, su tre turni. Poi, il 29 gennaio, la Protezione civile si congedò con una festa. «Alla fine del party hanno spento le luci e se ne sono andati – racconta il sindaco -. Il resto del Paese ha creduto che fosse tutto a posto. E noi ci siamo ritrovati soli. Con una città da ricostruire». E i leader del G8? «La Merkel ha fatto quel che aveva promesso. I canadesi e i giapponesi pure. Sarkozy, Putin, Obama? Qui non si è visto nulla. In compenso è arrivato un milione e mezzo dal Kazakhstan».
Ma la colpa non è solo degli altri. Il dissidio subito esploso tra il sindaco di centrosinistra e il commissario di centrodestra – il presidente della Regione Giovanni Chiodi – non ha certo aiutato. Tra 60 ordinanze governative, 80 decreti commissariali, centinaia di circolari, non si è capito più nulla. In tanti hanno presentato il piano di recupero del loro appartamento, ma in pochi hanno badato alle parti comuni. Tutti riconoscono all’abruzzese Gianni Letta di essersi dato da fare; ma i dissidi interni al governo hanno limitato le risorse. Risultato: due anni gettati via. Persino le case lontane dal centro storico, più facili da recuperare, sono ancora lì, con le crepe che ricordano gli affreschi medievali del Cattivo Governo. Ora, finalmente, qualcosa si muove. Il Comune ha approvato il piano per la ricostruzione. In cassa ci sono due miliardi. E c’è un ministro incaricato della questione, Fabrizio Barca. Qualche cantiere è partito, anche nel centro storico.
Il 6 maggio si vota per il nuovo sindaco, e anche questo sarà un elemento di chiarezza. Cialente ha vinto le primarie del centrosinistra. Alcuni tra i comitati spontanei sosteranno Ettore Di Cesare, imprenditore delle nuove tecnologie. Il Pdl è diviso: Alfano è venuto a benedire la candidatura dell’urbanista Pierluigi Properzi, ma in molti appoggiano Giorgio De Matteis, vicepresidente del consiglio regionale. I candidati sono nove, e la frammentazione potrebbe favorire Cialente.
Ma la soluzione non verrà solo dalla politica. I veri segni di speranza sono altri. È la sensazione che, passato il trauma improvviso e la lunga abulia, gli aquilani abbiano rialzato la testa. E stiano lavorando a una ricostruzione non meno importante, quella della comunità, dei rapporti umani, delle relazioni sociali, decisive anche sul piano economico in una città mai stata industriale, a maggior ragione da quando il polo elettronico è andato in crisi. Il Comune ha rilevato l’ex Italtel per farne un’incubatrice di imprese, al momento mezza vuota. Ma per un capoluogo che viveva di università (e di case da affittare agli studenti), di amministrazione, di teatro, di musica, di cultura, è fondamentale ricominciare a studiare, a recitare, a suonare, a parlarsi.
Fuori dal teatro comunale la locandina annunciaancora lo spettacolo di domenica 5 aprile 2009: «Le invisibili» con Maddalena Crippa, storia di donne pachistane sfigurate con l’acido ma che nonostante tutto riprendono a vivere. Tre giorni dopo sarebbe dovuto arrivare Toni Servillo con «La villeggiatura» di Goldoni. Arrivò davvero, recitò nell’auditorium della Guardia di finanza. Il teatro Comunale è lesionato, la volta del foyer è a pezzi, ma qui gli attori non si sono mai fermati. L’Associazione artisti aquilani ha portato commedie e tragedie sotto i tendoni. Antonella Cocciante – la cugina di Riccardo – ha fondato un’associazione, Animammersa, per recuperare lo spirito nascosto della città, ha raccolto i racconti dei concittadini affidati a Facebook e ne ha tratto un’opera teatrale, recitata nelle new-town; ora per Pasqua si è inventata il festival «Mettiamoci una pezza», e ha ricevuto da tutto il mondo mille pezze colorate che per un giorno rivestiranno le rovine del centro storico. Per l’anniversario del terremoto, che quest’anno coincide con il venerdì santo, ci saranno la processione del Cristo morto e una fiaccolata: i nomi delle vittime saranno letti uno a uno. Quest’estate lo Stabile – diretto da Alessandro Preziosi, l’attore, e animato da Giorgio Iraggi – organizzerà spettacoli sulle piazze di fronte ai teatri distrutti o inagibili, Sant’Agostino e San Filippo. Mentre al Comunale i lavori sono partiti, e dovrebbero finire tra due anni.
Difficile calcolare i tempi per recuperare l’intero centro storico. Il sindaco dice dieci anni, al massimo quindici. Altri fanno notare che in Umbria, dove il sisma è stato meno grave, quindici anni sono già quasi passati, e il recupero degli edifici più lesionati non è neppure a metà. Intanto, all’imbocco del centro dell’Aquila, piazza Regina Margherita è stata riaperta, il giovedì e il sabato sera gli studenti sono tornati. (L’università nel 2009 aveva 27 mila iscritti. Grazie anche alla sospensione delle tasse, ne ha ancora 24 mila, per quanto tutti pendolari). Micael Passayan, madre aquilana e padre di origine armena, aveva un ristorante spagnolo, «Andalucia». L’ha ricostruito in un vecchio capannone dismesso, più colorato e allegro di prima. Fabio Climastone aveva una pizzeria, «La Quintana». Il 5 aprile fece notte con un cameriere, poi tirarono giù le serrande e rientrarono: al cameriere crollò casa davanti agli occhi, tirare tardi l’aveva salvato. Neppure la pizzeria c’era più. Climastone fondò con altri venti piccoli imprenditori un consorzio per la tutela dei prodotti locali, e ora gestisce uno dei ristoranti «Oro Rosso»: una catena che prende il nome dallo zafferano, ha aperto a Rimini e a Riccione, tra poco aprirà a Torino. Davide Stratta aveva un’enoteca in via Garibaldi. L’ha spostata in collina, dove ospita gli amici di «Scherza col cuoco», l’associazione che organizza corsi di cucina abruzzese in primavera e autunno, le «stagioni morte», in cui – lontano dal Natale e dalle ferie – c’è più bisogno di stare insieme. Mentre alla «Cantina del boss», nel parco del castello dov’è in costruzione l’auditorium donato dalla Provincia di Trento e da Renzo Piano, riunisce i suoi soci Matteo Gizzi, un ragazzo di 23 anni che sta creando la Banca di credito cooperativo dell’Aquila, per investire sul territorio una parte dei due miliardi che dormono nei conti correnti.
Certo, le immagini di vitalità svaniscono all’ingressodella zona rossa, vigilata da militari gentilissimi, ma vissuti come un peso dagli aquilani che non possono ancora entrare senza autorizzazione nel proprio quartiere, nelle vie dove sono nati e cresciuti. Il silenzio è assoluto, surreale. Due operai cingalesi dormono su una tavola di legno. Più in là, un gruppo di muratori mangia un panino attorno ad Anna Oxa che canta nel registratore, messo al volume più alto per infondere, se non buonumore, coraggio. Le sole altre anime vive sono i cani randagi, tra cui Pluto, celebre perché non perde una recita né una commemorazione.
I cantieri più avanzati sono quelli delle chiese. Per la ricostruzione il Vaticano ha mandato qui come vescovo ausiliare don Giovanni D’Ercole, uomo del cardinale Bertone: paracadutista, ha pilotato aerei civili, scalato il K2 con Alemanno, corso due volte la maratona di New York. All’Aquila si è beccato una richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di notizie apprese in un interrogatorio, durante l’indagine sui fondi Giovanardi, peraltro mai arrivati. Il 17 aprile il gup deciderà. Nel frattempo sono state restituite al culto San Mario alla Torretta, San Francesco a Pettino, Santa Rita, San Pio X al Torrione, santa Maria di Farfa, oltre alla meravigliosa basilica di Collemaggio, dove una cupola di plastica custodisce le spoglie di Celestino V. Recuperata la splendida facciata quattrocentesca di san Bernardino da Siena, che venne qui a morire, si sta lavorando a quella di San Silvestro, dove le giovani coppie venivano a sposarsi. A luglio sarà riconsacrata San Biagio, grazie alla Fondazione Banca di Roma, mentre il milione e mezzo del Kazakhstan servirà a recuperare San Giuseppino, sede dei Solisti Aquilani, che nell’attesa hanno ripreso a cantare nelle new town.
Appena fuori la zona rossa, il primo rumore che si sente è un misto di musiche, classiche e rap. Viene dalla palestra aperta da due fratelli di 24 e 22 anni, Jacopo e Alessio Scotti, con l’amico di origini iraniane Daryoush Shojaee, 24 anni. Prima del terremoto era un centro benessere. Ora è un punto di aggregazione dove si insegnano danza classica e breakdance.
Un’altra palestra la sta costruendo a Sant’Elia 2 Roberto Nardecchia: arbitro internazionale di basket, costretto a lasciare dopo un arresto cardiaco, nel terremoto ha perso tre allievi della sua scuola di minibasket, e ora ha chiamato il vecchio amico Meneghin per restituire ai superstiti un campo di pallacanestro.
Sono vicende come queste a ricordarci che il dramma e la speranza dell’Aquila ci riguardano, che la storia parla di noi. Perché l’intero Paese, per come l’abbiamo visto e raccontato in questi tre mesi, assomiglia un po’ a questa città. Anche l’Italia, come l’Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare. Anche l’Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse – a cominciare dai suoi giovani – per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c’è anche un Paese che tiene, c’è anche un’Italia che – proprio come l’Aquila – resiste.
di Aldo Cazzullo, da Corriere.it
http://blog.aldocazzullo.it