NdR: un’analisi della realta’ aquilana che pone seri interrogativi in cerca di risposte efficaci. Prima che sia troppo tardi.
Da L’Unita’ del 10 giugno 2010 (Clara Sereni, scrittrice)
L’Aquila, specchio di un Paese terremotato. Senza più solidarieta’. Il capoluogo abruzzese e’ una collettivita’, ma non e’ un collettivo. Perché gli enti pubblici non programmano, per studenti e non solo, attivita’ utili alla citta’? Se quegli studenti e quelle carriole potessero stringere con le istituzioni un vero e proprio patto di dare/avere, ed essere messi in condizione di agire concretamente per obiettivi condivisi, comincerebbero ad essere un collettivo.
Lavorando per anni con persone molto disturbate psichicamente, ho imparato che guardare in faccia i problemi più gravi, le acuzie, insegna molto sui meccanismi di comportamenti che consideriamo normali, in noi stessi e negli altri. Come a dire che le situazioni più estreme molto hanno da insegnare alle crisi meno vistose che quotidianamente ci attraversano, e che quotidianamente ci sforziamo di ignorare.
Ne ho avuto la riprova nei due giorni in cui sono stata all’Aquila, per un convegno ricchissimo di suggestioni organizzato da Laura Benedetti, aquilana che da tempo insegna all’universita’ di Georgetown, dal titolo: «Dopo la caduta, memoria e futuro». Un susseguirsi di interventi che riflettevano su cadute, traumi e catastrofi di generi diversi, e sui modi e le esperienze per farvi fronte. Molto vicine a noi le macerie, in albergo con noi alcuni sfollati, poco più in la’ le new towns: un panorama anche umano che mi e’ entrato dentro, fondendosi via via con la percezione la paura e la previsione angosciosa di altre catastrofi ed altre cadute.
La lente d’ingrandimento del terremoto e’ diventata, insomma, la lente con cui mettere a fuoco le crisi che ci attraversano e ci attraverseranno. Lungi da me, ovviamente, appiattire e rendere uguale ad altri il dolore e lo spaesamento degli aquilani: allo stesso modo, ad esempio, mi indigno e mi indignerò per i tagli dissennati della finanziaria, ma non trovo inutile tenere a mente che con i poveri
del nostro rapace Occidente i poveri di altre più disperate aree del pianeta farebbero volentieri a cambio.
Dopo l’intervento di un paio di amministratori pubblici, per indignazione Laura Benedetti ha fatto l’intervento forse più direttamente politico del convegno. C’erano in sala parecchi studenti delle superiori, con di fronte a sé un’estate lunga di noia e inutilita’, perché per loro -come per gli aquilani tutti, del resto – la parola vacanza e’ vuota, priva di senso, e la parola partecipazione quasi un insulto: nessuno li vuole fra i piedi, l’ideale e’ che stiano zitti e ossequienti ad aspettare che la manna (!!!) cada loro dal cielo. Come ha notato Massimo Giuliani, uno dei relatori, alle democratiche categorie di «consenso» e «dissenso» si sono sostituite, in uno dei tanti slittamenti di linguaggio e senso di questi anni, le parole «gratitudine» e «ingratitudine», che ambedue hanno a che fare con qualcosa che ti viene donato, magari senza neanche averne pienamente diritto. Così come «protestare » e «indagare» si fa diventare sinonimo di «aggredire», perfino a mano armata, nelle parole di un premier irresponsabile, minaccioso, ricattatorio.
Scusandosi per il proprio pragmatismo forse troppo americano, Laura Benedetti si e’ chiesta e ci ha chiesto perché gli enti pubblici non programmino, per studenti e non solo, attivita’ utili alla citta’, per esempio la sistemazione di aree verdi e rotonde, abbandonate a se stesse e impraticabili perché altro e di più c’e’ da fare e da spendere, anche se e’ poco chiaro cosa si faccia e come si spenda. Ammesso e non concesso che soldi da spendere ce ne siano ancora.
L’Aquila e’ oggi una collettivita’, nel senso che ci sono lì molte persone che hanno bisogni e interessi parzialmente comuni. Ma non e’ un collettivo, perché le relazioni più forti e solidali si sono perse o vanno perdendosi nelle deportazioni verso le new town e verso gli alberghi della costa e dell’interno, nella fuga di molti in altre case di altre citta’. La disoccupazione, e più in generale le difficolta’ economiche e l’assenza di prospettive in tempi non biblici, rischiano di annichilire definitivamente ogni residuo legame e senso di appartenenza.
A L’Aquila c’e’ il movimento delle carriole: privo di interlocuzione con i poteri com’e’, e’ una protesta che non ce la fa a diventare progetto, e rischia per questo di spegnersi presto. Come ogni altra volonta’ di fare: che perdita, che spreco di energie e di intelligenze. Eppure, in tempi di crisi e supercrisi nulla dovrebbe andare sprecato.
Per L’Aquila si parla di terremoto in senso stretto, ma sono terremotati l’Italia e, solo a pensarci un pochino, il mondo intero. Per tutti noi, l’alternativa e’ fra il restare immobili e bloccati, aspettando quel che ci piove dal cielo (non manna, certamente), sempre più soli impauriti e angosciati, oppure provare a ricostruire legami, relazioni, appartenenza non becera.
Da che mondo e’ mondo, le relazioni che fanno di una collettivita’ un collettivo si costruiscono sul fare insieme. Penso che se quegli studenti e quelle carriole potessero stringere con le istituzioni un vero e proprio patto di dare/avere, ed essere messi in condizione di agire concretamente per obiettivi condivisi, comincerebbero ad essere un collettivo, il nucleo di altri possibili e più ampi collettivi: e forse perfino la valanga di psicofarmaci e altro che gira oggi per l’Aquila sarebbe meno travolgente. Ma, come ho gia’ detto, penso che L’Aquila sia il paradigma dell’Italia. Penso che citta’ e territori peggioreranno di gran lunga grazie ai tagli agli enti locali: ci sara’ chi fara’ iniziative culturali e chi preservera’ i servizi sociali, ma difficilmente le due cose potranno convivere, nei bilanci ridotti all’osso. Le alternative saranno secche, implacabili. Un patto trasparente fra cittadini e istituzioni potrebbe, intanto, rendere le scelte maggiormente condivise, e poi tenere in piedi attivita’ apparentemente superflue, ma in realta’ indispensabili al benessere e alla convivenza.
Beni comuni che, malgrado tutto, molti e molte hanno ancora a cuore, e per i quali sarebbero certamente disposti a spendersi. Un patto per il quale potrebbero essere utilizzati strumenti come la Banca del Tempo: con tutta l’attenzione necessaria a non produrre nuova disoccupazione, ma con l’opportunita’ di ricostruire quei legami senza i quali la lotta non può essere che di tutti contro tutti, in uno sbranarsi senza tregua che sta portandoci a passi da gigante verso la barbarie.
Viviamo in un Paese a cultura cattolica, in cui però ormai anche la carita’ genera intolleranza: ad Adro, la generosita’ di un imprenditore che chiedeva soltanto che tutti i bambini di una scuola venissero nutriti a dovere ha scatenato una rivolta feroce delle madri «paganti», ma la violenza dell’egoismo si manifesta ovunque e quotidianamente inuna miriade di piccoli gesti, tutti all’insegna del «ma se niente me ne viene in tasca, perché lo devo fare?». Anche se il mondo del volontariato continua a profondere le proprie energie, cedere il posto ad una anziana in autobus e’ diventato sinonimo di debolezza, così come compiere un qualsiasi gesto gentile e disinteressato.
Una contaminazione con la cultura protestante, più attenta allo scambio e all’impresa che alla carita’, può forse aiutarci a riprendere una strada di equita’. Perché un altro mondo e’ tuttora possibile, ma bisogna provarci. In fretta, perché il tempo che passa non scioglie i nodi, né all’Aquila né altrove: li aggrava.
Ovunque, i palazzi puntellati ma abbandonati si deteriorano, le crepe si appofondiscono, strade e piazze sono sempremeno percorribili, e di qui a poco non restera’ che abbattere ogni cosa.