Articolo da LaStampa.it
Gli ultimi sfollati rimasti negli accampamenti guardano le tende afflosciarsi sugli sterrati d’una piazza o uno stadio. Pochissime sono rimaste ritte, tese, sature di coperte, borsoni, stufette, giacche, scarpe, il televisore e i portafoto. Ecco che cosa resta a L’Aquila sette mesi dopo il terremoto. Spianate di terra battuta abbandonate e rade macchie blu delle tendopoli sono emblemi di una fine – la grande emergenza – e di una ripresa: il ritorno alle mura, case agibili, nuovi villaggi, e alberghi per i tanti che ancora si sentiranno anime in transito.
A due passi dalla caserma dei Vigili del Fuoco c’e’ il cartello «Campo Friuli Venezia Giulia». Sul cancello un altro: «Campo chiuso». Qui vivevano in quattrocento. E’ smantellato. In piedi una tenda soltanto, la numero 36, quella di «Paolucci Pina vedova Gualdi, anni 86, pensione 700 euro». Zoppica veloce: «Quella notte tirai via le macerie da sopra al ragazzo e mi caddero sui piedi spaccandomi le unghie».
Va e viene dalle cose sue al camion della ditta di traslochi Fratelli Guidotti, da’ dritte energicamente gentili a Gianfranco e Rosario, 45 e 60 anni: erano sfollati pure loro – campo di San Gregorio, 325 persone, chiuso – e adesso stanno uno in albergo e l’altro in una delle nuove costruzioni. Lavorano alla buona sorte di quelli come loro: «Vedi rassegnati, felici, titubanti. Trasportiamo una gioia relativa». Pina Paolucci che si trasferisce con il figlio quarantaduenne senza lavoro – il «ragazzo» delle macerie – nella caserma della Finanza, tutto controlla: «Il cappotto nero mi coprì per tante notti, le piantine grasse le porto via in mano».
La tenda da’ le spalle al campo deserto e Pina sembra non accorgersi che la’ dietro nulla e’ rimasto: «Vieni dopodomani, figliolo, facciamo una festa con la torta, tutti quelli di qui». Non e’ vero, ci si e’ sparpagliati, ma qui lei ha vissuto un microcosmo di dedizione («tanta generosita’») e artigli dell’astuzia misera («arrivavano le coperte e vedevi gli occhi da faina di chi cercava di prenderne di più»). Le manchera’ una comunione ora cristiana ora selvatica: «Bisogna soffrire per vivere». Più in basso c’e’ il campo Acquasanta, dentro la struttura del rugby. C’e’ una garitta in legno all’ingresso. Per la prima volta dal 7 aprile in Abruzzo, domandano un documento e rilasciano un pass: per il vuoto che avanza, dominato dagli striscioni dei contingenti passati di qui: «Noi con voi, voi con noi, per sempre».
Sono rimasti in dieci. Aziz Edani, marocchino di 24 anni, da cinque in Italia, stava a Coppito, l’angolo di mondo del G8. Alle cinque di mattina andava e alle cinque di mattina va al lavoro in pasticceria: «Mi manderanno in albergo a Avezzano, ottanta chilometri. Vuole dire perdere il posto. Cercherò di arrangiarmi qui, da barbone, pur di non perderlo». Sono andati via da Collemaggio, dai paesini intorno. Via i duemila di piazza d’Armi, duemila tranne venti, gli irriducibili: italiani, per lo più dalle vite sfortunate gia’ prima, e rumeni che avevano trovato lavoro e dignita’ e d’improvviso precipizio. A volte c’e’ tensione. La solitudine in una tendopoli dismessa, ridotta a una quadratino di punti blu in un’area immensa, vuota, trascurata, finisce per farli barcollare tra insopportazione e solidarieta’.
Luciano Pagliaro, 50 anni, pensione di invalidita’: «Che vado a fare in albergo a Sulmona? Voglio stare dove qualcuno mi conosce, mi aiuta». Sgomento suo fratello Giancarlo, 47 anni, una spalla rotta, una gamba malconcia e i polmoni alla deriva: «Devo andare in ospedale per le visite. Come faccio da lontano?». Il fotografo freelance Marco D’Antonio, 31 anni, vissuto qui e poi trasferitosi da amici, torna a trovarli: «Un mondo gia’ sperduto cui il terremoto ha dato l’ultima mazzata». Maria Concin, romena di Sociava, 49 anni, apre la tenda. Tra pupazzi e tv sempre accesa c’e’ sua nipote, Alessia, 8 mesi, nata qui, senza saperlo venuta al mondo tra gli «irriducibili» e loro testimonial. La mamma, Anka, e’ a lavorare, e a lavorare come manovali sono gli uomini: «Io ero badante – dice Maria -, come faccio se vado in altro posto?».
«Andare via» e’ paura, meglio l’avanzo di campo. In una tenda abbandonata, materassi e brande rovesciate, macchie di sangue: coltellate di due mesi fa per una questione di donne o di polvere. Vicino agli alberi, un altarino sotto una nicchia dipinta: non ci sono più crocifisso e Madonna, soltanto lumini, un libro su Messa e Meditazione, un altro con lettere di don Benzi e, sotto questi, «La concessione del telefono» di Andrea Camilleri. Anche se non c’entra, qualcuno a pagina 30 ha sottolineato a matita: «Siamo qui a impetrare il vostro generoso aiuto».