Considerazioni sull’evoluzione della crisi sismica aquilana del 2009-2017
Antonio Moretti – MeSVA, Università dell’Aquila
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Già dai giorni immediatamente successivi ai terremoti dell’Aquila del 6 e del 10 aprile 2009 si era venuta a delineare la possibilità del propagarsi della deformazione alle strutture adiacenti verso NW e verso SE. È ben noto infatti, ed anche intuitivo, che un terremoto (rilascio di energia elastica sotto forma di onde sismiche) si genera a seguito del movimento improvviso (cambiamento di posizione reciproca) di grandi masse rocciose lungo una superficie discreta (la faglia) che interrompe la continuità delle strutture crostali. Le grandi faglie sismogenetiche in genere si propagano dalla superficie terrestre fino alla profondità di circa 10-12 km dove, in tutto l’Appennino, si sviluppa un piano di debolezza o di “scollamento” tra le rocce della crosta superiore, rigide, e la crosta inferiore, più duttili a causa del progressivo aumento di temperatura e di pressione. Questi movimenti, dell’ordine di grandezza di qualche metro nei grandi terremoti, generano una perturbazione nel campo degli sforzi in sottosuolo e vanno a “spingere” sulle porzioni rocciose adiacenti, le quali, se sono sufficientemente cariche di energia elastica, possono liberarla in una sorta di “effetto domino” che si interrompe quando tutta l’energia del sistema è esaurita. A questa fase segue un periodo più o meno lungo di relativa quiete sismica e di “ricarica” delle strutture tettoniche, secondo la teoria del “ciclo sismico” riportata in figura.
Questo modello appare perfettamente verificato dall’andamento storico della sismicità in Appenino centrale: alle grandi crisi sismiche del 1328-1349, 1456-1461, 1688-1706 (figure 2a,2b,2c) sono seguiti lunghi periodi di relativa quiete sismica. Dopo il 1706 infatti le montagne del centro Italia sono state turbate solo dai terremoti del Molise (1805), di Avezzano (1915), e dell’Irpinia (1930, 1980). In tutti questigrandi periodi sismici non è mai accaduto che un forte terremoto “ripercorresse” le aree già interessate da consistenti rilasci di energia sismica.
Su questa base storica quindi appare assolutamente ingiustificata la posizione resa dalla commissione grandi rischi, che lascia intendere (ma senza esprimerlo chiaramente) la possibilità di nuovi e devastanti terremoti nell’Aquilano a causa dell’esistenza nell’area di “faglie silenti” non ancora interessate dall’attività sismica. A questo proposito è opportuno precisare che NON SONO LE FAGLIE che rilasciano l’energia elastica, ma le grandi porzioni rocciose circostanti, che occupano un volume crostale di migliaia di Km3.
La faglia (o le faglie) è solamente l’elemento fisico che limita il sistema, e lungo la quale avviene la rottura ed il successivo scorrimento. Questo è ben espresso dalla pianta di figura 3, dove sono riportate le deformazioni permanenti del suolo avvenute il 30 ottobre 2016, ricavate tramite interferometria laser da satellite.
La linea verde indica la traccia in superficie del piano di faglia, l’ellisse nera racchiude l’ampia porzione di territorio (ed il relativo sottosuolo) dove le rocce hanno subito una deformazione (nel nostro caso verso il basso) rilasciando al contempo la loro energia elastica.
Si noti che, poiché la faglia maggire (master fault) è inclinata di circa 60-45° verso SW, il massimo rilascio di energia (la scossa principale) si sviluppa sul lato SW, alla profondità di circa 10km, mentre le massime deformazioni del suolo sono rilevate in corrispondenza dell’emersione del piano di faglia sul margine NE. Ovviamente questa porzione al suo interno racchiude centinaia e migliaia di faglie minori le quali, deformandosi progressivamente, danno luogo alle cosiddette repliche o “scosse di assestamento”, termine assolutamente corretto perché si tratta di espressioni di movimenti accessori che “aggiustano” le geometrie di sottosuolo perturbate dalla scossa principale.
Da ciò ne consegue che la distribuzione degli ipocentri è assolutamente rappresentativa delle porzioni crostali che hanno rilasciato la loro energia sismica. In più, vi è un preciso limite alla quantità di energia elastica che un determinato volume di rocce crostali, così come ogni corpo elastico sia esso acciaio o caucciù, può accumulare prima di giungere a rottura, e quindi una precisacorrelazione tra la dimensione della struttura sismogenetica e la magnitudo (la quantità di energia) di un possibile terremoto.
Ciò premesso, analizziamo in dettaglio lo sviluppo del’attività sismica dal 2009 ad oggi. I due terremoti principali del 6 e del 10 aprile 2009 e relative repliche (ben visibili nella mappa di fig. 4a) hanno interessato le faglie di Pettino-Paganica e di Arischia-Collebrincioni ed i relativi volumi di sottosuolo. Negli anni successivi, esaurita l’energia delle strutture aquilane, l’attività sismica si è spostata verso NW, interessando a più riprese con modesti sciami sismici l’area di Montereale, generando un comprensibile allarme nella popolazione ma non il concreto interesse della Commissione Grandi Rischi. A seguito della situazione di crisi comunque l’allora sindaco Lucia Pandolfi ha temporaneamente (ed opportunamente) emesso decreti di interdizione di assembramenti di persone in are chiuse (chiese ecc.) se non adeguatamente dotate di sistemi di sicurezza. La Protezione Civile ha anche installato strutture di accoglienza preventive, provvedimenti che si sono rivelati assolutamente opportuni alla luce delle recenti calamità sismiche.
L’attività sismica si è violentemente risvegliata con le scosse del 24 agosto e del 26-30 ottobre dello scorso anno. L’area (o meglio il volume crostale) interessato dalle deformazioni si sviluppa tra Montereale e la Valnerina, interessando (questa volta si!) anche una parte dell’area già colpita dal terremoto del 1979.
Il persistere dell’attività sismica nell’area di Montereale-Capitignano, l’unica che ancora non aveva rilasciato energia dall’inizio della crisi sismica, ha giustamente suscitato interesse e timore sia tra le autorità che tra la popolazione dell’area e di quelle adiacenti. Sulla base della lunghezza della porzione ancora “silente” della struttura sismogenetica profonda (NON delle faglie in superficie) era stata ipotizzata una magnitudo massima inferiore a 6 (come già esposto in precedenza, esiste una precisa relazione tra la dimensione della struttura e la quantità di energia elastica che può essere immagazzinata). Su questa base è stata ipotizzata la forte probabilità di una scossa non catastrofica nell’area di Montereale (vista anche la buona qualità del patrimonio edilizio e del substrato geologico del paese, oggetto pochi anni fa di una dettagliata analisi microsismica da parte del Laboratorio di Geologia e Sismologia del MeSVA-UNIVAQ), ma che avrebbe comunque causato panico e la necessità di porre al riparo la popolazione, viste anche le condizioni meteorologiche.
Giovedì 19 scorso si sono verificate nell’area 4 scosse di magnitudo maggiore di 5 (5.2, 5.4, 5.5, 5.1) succedutesi in rapida successione temporale da NW verso SE lungo un allineamento di circa 10 km, corrispondente con sorprendente precisione al tratto “mancante” o “silente” della struttura sismogenetica, che appare così “completa” in tutta la sua estensione geografica (fig. 4b). Sommando le energie delle tre scosse (ricordiamo che la magnitudo è l’espressione in forma logaritmica dell’energia) otteniamo unamagnitudo equivalente di circa 5.9, corrispondente alla massima energia che era possibile attribuire al tratto mancante della struttura. In altre parole il 19 gennaio 2017 si è effettivamente verificato un evento di magnitudo 5.9, articolato in 4 eventi successivi.
Del resto anche il terremoto del 6 aprile 2009 è stato suddiviso dai sismologi INGV in tre eventi successivi, separati da circa 2 secondi l’uno dall’altro; anche il grande terremoto del 1456 (M>7, fig. 2b) è risultato essere articolato in almeno tre scosse in rapida successione. Si tratta quindi di un fenomeno assolutamente comune (od almeno certo non sorprendente) nella storia sismica passata e recente dell’Appennino!!
Alla luce di quanto esposto appare assolutamente ingiustificato, tanto storicamente che sismologicamente, l’allarme diffuso dalla Commissione Grandi Rischi, la quale peraltro non accenna esplicitamente all’area aquilana come possibile scenario di un “futuro evento di magnitudo ancora maggiore”.
Nella mia misera esperienza di Geologo del Territorio “martello e scarponi”, consapevole del mio infimo ruolo accademico, ma formato (questo almeno me lo permetterete!) alla scuola di maestri come Paolo Scandone e Paolo Pialli, mi permetto di contestare le assurde conclusioni della Commissione G.R. e dei notabili dell’INGV che avrà l’unico effetto di seminare il panico tra le popolazioni abruzzesi, mettendo in ginocchio quel che resta dell’economia e del tessuto produttivo aquilano, e non gioverà certo a salvaguardare il territorio dell’Appennino meridionale dove, viceversa, sarebbe opportuno avviare dettagliate analisi sismotettoniche, geochimiche e sismologiche, senza trascurare l’accurato rilevamento dei transienti (precursori) sismici.
ANTONIO MORETTI – MeSVA, Università dell’Aquila
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