La sera del 23 novembre 1980, alle ore 19:34, un forte terremoto (magnitudo 6.9) terremoto colpì l’Irpinia e la Basilicata, causando gravissimi danni in un centinaio di località della Campania, della Puglia e della Basilicata. Alcune decine di località, fra le quali Conza, Laviano, Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi, furono pressochè distrutte. Il terremoto fu avvertito sensibilmente in tutta l’Italia Meridionale; a Napoli numerosi edifici furono lesionati. Un minuto e mezzo che rase al suolo interi paesi provocando circa 3000 morti, 9000 feriti, 300 mila senza tetto e 150 mila abitazioni distrutte, interi paesi isolati per giorni.
Così una testimonianza [G. Russo, 1981]: “Quando sono arrivato a Potenza, la notte del 25 novembre 1980, mancavo dalla Lucania da oltre un anno […] La sera di martedì ero disceso da Sant’Angelo dei Lombardi verso Pescopagano e Potenza. Andando verso la Basentana avevo incrociato molte auto di privati cariche di viveri o di vestiario. Avevo fissa nella mente una immagine: tra nuvole di polvere, sollevate dalle poche ruspe che scavavano, vecchi, donne, uomini con fazzoletti sulla bocca (mancavano le mascherine) cercavano i figli, la moglie, i genitori sotto le macerie sperando di trovarli ancora vivi. I soccorsi erano arrivati in ritardo ed erano scarsi. Dopo Tito, sulla Basentana, una colonna di autocarri militari era ferma, avvolta nella nebbia, con i soldati intirizziti sotto i tendoni degli autocarri, perchè non sapeva dove dirigersi […]”.
Eravamo agli albori della Protezione Civile, e per avere un quadro di cosa fosse avvenuto si dovettero attendere giorni e giorni. Emblematico rimase il titolo del Mattino di Napoli del 26 novembre, tre giorni dopo il terremoto, con il grido FATE PRESTO in prima pagina. Quel titolo è diventato addirittura un’opera d’arte.
Da allora molte cose sono cambiate per noi sismologi, sia per gli aspetti di sorveglianza sismica in Italia che delle conoscenze sui terremoti. Una ricostruzione degli aspetti normativi sulla pericolosità e sulla normativa si può trovare qui.
Sembra che, se la ricerca ha fatto molti passi avanti, la volontà di mettere in atto serie politiche di riduzione del rischio non sia cambiato molto da allora.
La sorveglianza sismica oggi
Le reti di monitoraggio e i sistemi di trasmissione dati ci permettono oggi di determinare con precisione l’origine del terremoto (l’ipocentro) e la sua energia (la magnitudo) in pochissimi minuti. La sorveglianza sismica viene effettuata nella sala di monitoraggio dell’INGV da personale esperto che analizza in tempo reale le migliaia di terremoti che avvengono in Italia ogni anno. I dati delle localizzazioni automatiche (disponibili dopo 1-2 minuti dal terremoto) vengono inviati solo agli organi di Protezione Civile, per consentire di guadagnare qualche minuto prezioso in caso di forte terremoto. I dati che giungono alla nostra sala di monitoraggio vengono ricontrollati dai sismologi prima di essere diffusi (via web, twitter, ecc.).
In questi 33 anni, e in particolare negli ultimi 10, la Rete Sismica Nazionale è migliorata notevolmente sia nel numero di stazioni sismiche, sia nella qualità degli strumenti e dei dati che vengono rilevati, grazie anche ad importanti investimenti del Dipartimento della Protezione Civile (DPC) e del Ministero della Ricerca (MIUR). I dati di oltre 400 stazioni sismiche sono oggi analizzati in tempo reale nella sala di monitoraggio dell’INGV. Ciò consente di studiare un numero elevatissimo di terremoti per capire le caratteristiche delle nostre faglie attive. Ogni anno la rete INGV ne localizza tra i 10000 e i 20000. È possibile visualizzare l’evoluzione della rete di monitoraggio sismico dal 1980 in questa storymaps.
Tale evoluzione ha permesso di localizzare molti eventi sismici che tuttora avvengono nell’area del terremoto del 1980. Guardando le mappe con la sismicità registrata da allora, di 5 anni in 5 anni, si nota un notevole aumento degli eventi localizzati per effetto del miglioramento della rete, soprattutto dal 2005-06.
Negli anni ’80 e ’90 ci furono accese discussioni scientifiche tra geologi e sismologi per spiegare il terremoto del 1980. I dati sismologici, non solo italiani ma mondiali, indicavano indiscutibilmente un tipo di movimento della faglia responsabile del terremoto di tipo “estensionale” o “normale”. Si iniziava a capire che l’Italia peninsulare era soggetta a uno “stiramento” dal Tirreno all’Adriatico.
Questa osservazione, basata sui dati sismologici, contrastava con le conoscenze geologiche dell’epoca, che identificavano l’Appennino come una catena a pieghe e faglie, nata da un processo di compressione crostale.
Nei trent’anni a seguire, i dati sismologici dei maggiori terremoti della catena appenninica confermarono che il processo attivo prevalente è proprio l’estensione della penisola in senso nordest-sudovest: Gubbio e Abruzzo nel 1984, Umbria-Marche nel 1997, L’Aquila nel 2009.
I dati satellitari (GPS), disponibili per gli ultimi dieci anni, hanno poi confermato questa ipotesi e permesso di quantificarne l’entità: il processo di “allargamento” avviene con valori di pochi mm/anno, tipicamente 5-6. Sembra poco, ma su una scala dei tempi geologici non lo è: tra 1000 anni l’Italia sarà larga qualche metro in più; tra 1 milione di anni alcuni chilometri.
Il terremoto del 1980 può anche essere considerato l’inizio della paleo-sismologia in Italia. Fu infatti il primo terremoto italiano ad aver prodotto un’evidente fagliazione superficiale, con spostamento fino a 1 metro dei due blocchi crostali.
L’analisi integrata dei dati sismologici, storici, geodetici e paleosismologici ha permesso di capire che, mentre sulle singole faglie i tempi di ritorno dei forti eventi sismici sono dell’ordine del migliaio di anni, i tassi di deformazioni sono tali da determinare terremoti ogni 300 anni circa. Questo significa che le faglie attive sono numerose e ancora oggi probabilmente non le abbiamo identificate tutte. C’è ancora molto da fare.
Terremoti complessi
Nonostante i dati sismici del 1980 fossero scadenti, i sismologi riuscirono a ricavarne informazioni preziose sul processo di faglia che aveva caratterizzato il terremoto irpino. Per la prima volta si riconobbe la complessità del fenomeno: non fu un unico evento a rompere la crosta terrestre dalla profondità di 15 km fino alla superficie, ma almeno tre “sub-eventi” che nell’arco di meno di un minuto avevano rotto tre segmenti di faglia vicini. Si calcola che si trattò di tre terremoti di magnitudo intorno a 6.4-6.6, la cui magnitudo totale era pari a 6.9. In pratica come se tre terremoti forti, tutti più forti di quello dell’Aquila, si fossero verificati nell’arco di 40 secondi nella stessa zona (un terremoto di magnitudo M6.9 è otto volte più grande di uno con M6.3).
Negli anni successivi abbiamo imparato che la maggior parte dei terremoti italiani (e non solo) si sviluppano in modo analogo, anche se le differenze in tempo tra “sub-eventi” possono essere di ore, giorni, mesi o anni. A Colfiorito (Umbria-Marche 1997) passarono 9 ore tra la prima e la seconda scossa forte, in Friuli nel 1976 alcuni mesi, in Abruzzo (Val Comino 1984) uattro giorni (7 e 11 maggio). Una delle sfide della sismologia è proprio quella di capire il motivo di questa complessità: come si parlano le faglie? Da cosa dipendono questi ritardi così diversi? Qual è il ruolo delle proprietà delle rocce e dei fluidi ospitati nelle fratture profonde? Purtroppo le zone dove si originano i terremoti sono inaccessibili agli strumenti. Possiamo solo studiare il processo da lontano (con i sismometri in superficie, con i satelliti dallo spazio), o attraverso esperimenti in laboratorio su campioni di roccia grandi pochi centimetri.
Fonti: ingvterremoto.wordpress.com, edurisk.it