IL RACCONTO: MILLE GIORNI FA E POCO PIÙ – L’AQUILA SI CONFESSA

cuore_aq“Le lunghe e profonde crepe dei palazzi che mi hanno visto svegliare e addormentare da sempre, sono cicatrici profonde sulla mia schiena”. Un racconto, quello scritto da Ezio Riccardo Epifani, che evidenzia la fame d’amore, di attenzione che la città de L’Aquila denuncia, confessandosi al runner. La città parla.


Ciao, che gioia, quale inaspettata emozione quella di vederti qui. Finalmente sei tornato da me. Posso averti ancora, si. Potrò volare sulla tua persona, sul tuo corpo, sulla tua anima. Eri inatteso, e ora mi accorgo che la tua mancanza era un lucchetto chiuso attorno ai miei occhi. Da tempo volevo essere l’orizzonte del tuo sguardo, in cambio poterti stringere, avvolgere tra le mie braccia.

Sei arrivato in silenzio stamane e non me ne sono accorta. Potevi avvisarmi, ma tu sei anche questo e forse è meglio così, hai saputo sorprendermi. Così ti offro il mio essere senza veli, nuda, senza un filo di trucco. Forse ti piacerò di meno, spero di no, ma saprai che sono vera e l’averti qui mi riempie il cuore, fa debordare la superficie dei miei pensieri. Uno sparo, come un tuono senza colore in un cielo macchiato di solo azzurro, nato sul prato dove, mille giorni fa e poco più, erano pianto, dolore e speranza, ha tradito la tua presenza. Il suo eco, trasportato dal vento, ancora per alcuni secondi ha fatto da colonna sonora al diffuso battito d’ali corvine degli uccelli che si sono levati in volo dagli angoli e dalle macchie di verde, fiore all’occhiello dei miei inquilini, a Collemaggio. Amami e lo stesso suono che parla di te, mi volerà sopra fino alle lacrime barocche di Sant’Agostino e nascerà un sorriso. Serenamente hai guardato nella mia direzione e cominciando a correre, ti sei avvicinato a me, fra le mie braccia.

Non eri solo ma io non avevo occhi che per te e ora la traccia dei tuoi passi insegue e nutre il mio amore per te. Hai cominciato a volteggiare attorno a me, cercando di insinuarti nel mio corpo, nella mia anima, ma la mia pelle ti ha avvertito. Si lo so, non è quella che ricordavi. Non è la stessa che accarezzasti ospitandoti, qualche anno fa quando mi amasti così teneramente per tante sere e giorni pure. Ricordo ancora il fruscio del tuo immancabile golfino di cashmere che colorava i nostri movimenti. Avevi freddo dicevi, anche se era giugno. Ed io mi eccitavo al solo pensiero di poterti scaldare anche solo con il mio alito. Caro, amami ancora come mi amasti allora, ora che la mia pelle è il chiaro e lo scuro di mille giorni fa e poco più, ora che non so stare attenta al sole, ora che sono distratta se piove o tira vento. Quando una volta mi spiegasti teneramente che sentirsi libero significava anche camminare piano sotto l’acqua, accettarla senza compromessi sul proprio corpo, sulla pelle, sul viso, tra i capelli, sulla rima crumira alle corse del quotidiano rincorrersi, ti sorrisi sulla voce che mi disegnava le tue fantasie, che mi raccontava di te. Ma ora ascolta me, amami, dammi il tuo amore anche solo per un giorno. Fa che io possa rubare qualcosa di te, i pensieri sull’effetto che ora ho su di te, la speranza per come mi vorresti, i desideri per come ti piacerei di più. Ma la vergogna, mio amato no, quella non la provo e rubo di te anche mentre mi giri intorno o mi sei accanto, attingo alla tua energia per farmi ricca e povera ma cosciente, attraverso i tuoi occhi e i tuoi pensieri che io esisto e vivo e penso e spero, grazie a te.

L’acqua che mi bagna la sento addosso in modo diverso, ora. La sento scorrere piano, sarà per via della rughe nuove della mia pelle che giocano a sovrapporsi, interrompendo il naturale richiamo della caduta a gravità delle stille di pioggia. Pioggia che non lava né la luce chiara e amara della mia piazza Duomo né l’ombra dei miei vicoli scuri e muti, incupito sorriso. Guardami e amami, sono sola e solo me stessa. Amami sul chiaro della voce e grida felici di un bambino, nostalgia sui due sensi, che mi accompagna per un tratto di strada. Amami sullo scuro delle mie strade vuote, deserte, ma comunque vive e silenziose, come le mani unite, dolce nostalgia, di una coppia di vecchi in piedi di fronte alla mia fontana, giochi, splendore e riflessi di 99 candele d’acqua. La pioggia non lava via nulla di quel che vedi di me, rinnova i toni, ne accende i colori, quelli crudi dei telai di ferro e legno che tentano, inutile, di darmi un’anima, di farmi rimanere alta, ferma, in piedi prima che io possa, Aquila tra tutte le città, finalmente riprendere il volo. E sulla mia veste, vedi, ci sono altri colori dell’iride che il vento non può scacciare ma solo spingere via. E se i miei pensieri fossero anche colore, l’alito di Eolo potrebbe portarli lontano, tingere lo sguardo agli occhi e i suoni alle orecchie di chi non sa ascoltare, di chi non sa vedere, non sa o non vuole capire il mio grido di speranza. Per questo ora sono felice di averti con me oggi. Corrimi incontro, corrimi appresso, corrimi dentro, corri e amami.Donami il tuo amore, fammi sentire viva, fammi tremare. Oddio, tremare. Ma dove eri quella notte senza fine e senza alba, quella notte di aprile di mille giorni fa e poco più, a far gara dalle 03.32, mentre il mio corpo tremava, le mie braccia e le mie gambe si scuotevano, le lacrime incorniciavano 308 vive tele dipinte di freschi colori, ancora in corsa, spegnendole nel mio grembo? Amami, ti prego, aiutami a ricordarli, aiutami a tracciare e render forte il perimetro delle ali degli angeli che mi hanno abbandonato quando non ho saputo resistere agli urti, quando non ho saputo rimaner ferma quando dovevo, quando non ho saputo proteggere le loro vite, ali che possano sempre sostenerli, comburenti nelle slegate geometrie dei loro voli nella mia memoria e nei luoghi che li hanno visti nascere, lontani da me. Perché, vedi, tu che mi conosci da tanto, io un tempo ero molto attraente. Per questo gli angeli planavano ai miei piedi, da magici piani di voli accesi altrove, goduti intorno a me e terminati sul mio corpo caduto giù, quella notte…

Ora invece tu, che cingi i miei fianchi, che stringi il mio bacino, che corri sui miei seni urbani e nel mio ventre cittadino e guardi dove guardo io, puoi ascoltare il chiasso silenzioso sull’asfalto della mia Venti Settembre, dove le finestre aperte e le brecce nei muri, sono macchie di buio e d’ombra sul mio viso. Ma corri piano però, perché sono anche costretta a mantenere il passo, vedi? Non sono piena e formosa e le curve sinuose del mio corpo le puoi percorrere anche sui viali che son stati la sfumata vetrina di una vita che c’è stata, di giornate autarchiche ma gaie, semplici ma felici. Le lunghe e profonde crepe dei palazzi che mi hanno visto svegliare e addormentare da sempre, sono cicatrici profonde sulla mia schiena. Su esse, il tuo sguardo vero, profondo, lenisce per un attimo il mio il dolore, la mia pena. Le buche recintate dove hanno abitato, pianto, amato, sognato, gridato, sperato gli angeli, sono crateri vuoti, pozzi profondi dove la morte ha preso e la vita ha dato meno, poca fune ai secchi, nelle mani di chi aveva diritto di tirare ancora molta più acqua.

Vorrei che quei crateri fossero le orecchie di chi non vuole più sentire la mia voce e i pozzi, gli occhi di chi non vuole più guardarmi. Ma sentimi almeno tu ora, amami un po’. Ho bisogno del tuo amore, del tuo sorriso dolce su di me, di ciò che puoi darmi, ho bisogno dei tuoi ricordi di me, perché ogni ricordo di me che tu porterai via, sarà una goccia che cadendo, potrà rompere la superficie di questo oceano di silenzio che mi stanno versando addosso. Amami, guardami e amami. Al traguardo privo di alloro, eri stanco e felice della mia compagnia e in questa splendida giornata di sole e d’azzurro cielo, nemmeno una nuvola a fare da eterea testimone alla tua visita. Sono contenta che tu mi abbia ritrovata e se alla fine del giorno tu andrai via, sai che io rimarrò sempre qui dove tu mi lascerai, felice, ora.

Ezio Riccardo Epifani