14 marzo 2012 – Articolo da “Il venerdì” di Repubblica, di Luidi Irdi
L’aquila. Qualche idea? Mentre ci si pensa su, nel centro storico dell’Aquila, avvinghiato a migliaia di tubi, impalcature e puntelli per non cadere come una pera cotta, i tassi trovano nei palazzi splendide tane con vista panoramica, i topi scorrazzano in allegria, le gazze stracciano col becco i teli di plastica che coprono le finestre, zampettando poi di tubo in tubo come se fossero alla fiera internazionale del trespolo.
L’Aquila, zona rossa, quella dove in teoria non si può entrare perché potrebbe caderti in testa da un momento all’altro, ma dove invece anche i ragazzi, la sera, visto che sul Corso dal terremoto a oggi hanno riaperto solo due bar, un gioielliere e un negozio di abbigliamento che fa i saldi, si trovano un appartamento dove gozzovigliare in uno scenario post nucleare, tra le macerie con una cassetta di birra e quattro canne.
E meno male che non se ne sono andati del tutto, perché all’Aquila la sera c’è solo da sbattere la testa al muro, a meno che uno non si voglia rifugiare, ultima spiaggia, nel mega centro commerciale l’Aquilone, a qualche chilometro dal centro, supermercati, fast food e cavallucci meccanici per i bambini. Per il momento i giovani, almeno quelli che studiano, sono ancora lì, perché l’università funziona (27 mila studenti) e le tasse di ammissione sono state azzerate all’indomani del terremoto del 6 aprile 2009. Ma quanto potrà durare?
Piano piano, la gente taglia la corda (nel 2011 le scuole hanno perso duemila alunni e le aziende 9000 lavoratori, chi in cassa integrazione e chi in mobilità) perché l’Aquila a tre anni di distanza dal disastro è ancora una grande ciambella senza il buco, ovvero il suo meraviglioso e antico centro storico, e si sa che senza il buco una ciambella non sa di niente. Per capire, basta immaginare un calice di prezioso cristallo che esplode e sparge i suoi frammenti lungo una circonferenza immaginaria che oggi ospita le New Town berlusconiane realizzate dalla Protezione civile in 19 piccoli deserti diversi, capanni e villette tirate su in fretta e furia così come capita ai piedi dell’Aquila, una cintura di residenze sedicenti provvisorie.
Qualche idea? Questo è il vero punto. Depressi dalle rovine fisiche e psichiche lasciate dal terremoto, gli aquilani si guardano l’un l’altro smarriti senza più capire cosa accadrà della loro città e non si vede all’orizzonte nessuno in grado di sventolare una nuova bandiera, un’idea forte, una visione, un progetto grande e ambizioso capace di mobilitare le menti e unire le volontà e far diventare l’Aquila, oltre l’emergenza, la vera questione nazionale. In altre parole, ognuno si fa i fatti suoi. Il che è comprensibile per tutti quelli, e sono molti, che, persa la prima casa, persa anche la seconda che affittavano agli studenti fuori sede, persa la piccola attività commerciale o artigianale, si arrangiano a sbarcare il lunario. Lo è meno per l’ élite della società aquilana.
Roberto Marotta, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio dell’Aquila, ammette che la ricostruzione dell’Aquila rischia di implodere definitivamente nell’aquilanità, ovvero in quella diffidenza montanara che tende a tener lontani gli estranei. “Sa cosa avrei fatto io? Avrei chiamato Norman Foster, Zaha Adid, Massimiliano Fuksas e compagnia. Le grandi star dell’architettura e dell’urbanistica e gli avrei consegnato le chiavi. Diteci che dobbiamo fare. Scrivete la nuova storia di questo territorio e dell’architettura contemporanea”.
Idea elementare, quella di Marotta, ma sostanziosa. Un autorevole intervento esterno avrebbe anche messo al riparo da piccole beghe circondariali. Un sindaco tirato per la giacca per dare la precedenza a una chiesa o a un edificio avrebbe sempre potuto rispondere: “Non rompetemi le scatole. Me l’ha detto Lord Foster di fare così”. Al posto di una stella polare i cittadini hanno visto sorgere una costellazione di strani poteri ai quali oggi tentano affannosamente di sopravvivere.
L’aquilano terremotato avanza controvento sfidando un mostro tentacolare ormai da tutti conosciuto come “La Filiera”, ovvero una successione di acronimi da Settimana Enigmistica che però decide della vita o della morte dei progetti di ricostruzione di una casa. Funziona così: sfuggito alla Sge (Struttura gestione emergenza) un cittadino presenta il progetto alla Stm (Struttura tecnica di missione), emanazione dell’Ufficio del Commissario per la ricostruzione (che poi sarebbe anche il presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi), che poi lo passa in successione a tre società (Fintecna, Reluiss, Cineas), che hanno il compito di verificarne la congruità, richiedendo se è il caso modifiche o integrazioni. Nel gorgo sono state inghiottite 7500 pratiche, che lì riposano tranquille. Ogni tanto si dice che sono in via di risoluzione e poi tutto tace di nuovo.
Sullo sfondo dei labirinti burocratici c’è quella che Giustino Parisse, giornalista del quotidiano Il Centro, diventato con il suo blog la coscienza critica della città, definisce una “guerra tra poteri deboli”. Terminato lo show in mondovisione del berlusconismo (l’ex premier è andato 30 volte all’Aquila nel periodo del post terremoto e poi è completamente sparito dalla circolazione) è rimasto l’estenuante braccio di ferro tra il sindaco Massimo Cialente e la gerarchia del Commissario straordinario.
Uno dice una cosa e l’altro il contrario. Copione semplicissimo. Il Commissario Chiodi, del Popolo della libertà, vuole comandare e Cialente (Partito democratico) è furioso perché, spiega al Venerdì: “Qui siamo come a Kabul o a Bagdad. Ci sono le truppe di occupazione”. “Il problema dell’Aquila è che nessuno è capace di dire “ho sbagliato”” sintetizza con luminoso buon senso Parisse.
Non è del tutto esatto, perché nei circuiti dell’intellighenzia aquilana qualcuno che coltiva sensi di colpa c’è, come per esempio Paola Inverardi, docente di informatica e preside della facoltà di Scienze dell’Università (e, secondo alcuni, prossimo rettore). Inverardi racconta che subito dopo il terremoto si presentò una pattuglia di esperti dell’Ocse che in tempi brevi elaborarono un progetto strategico di rinascita dell’Aquila e del suo territorio mettendo al centro del tavolo l’università, grandi centri di ricerca di eccellenza tecnologica, L’Aquila, insomma come la nuova Oxford italiana. “Fu un raggio di sole nella confusione generale” racconta Inverardi, “si immaginava una ricostruzione ad altissimo contenuto sperimentale tecnologico e energetico. E noi, che siamo l’Università, il luogo della conoscenza, non siamo stati capaci di afferrare quel momento e spingerlo con tutte le nostre forze. Se qui tutto è fermo la colpa è dei politici, e di chi se no? Ma anche nostra.
Potevamo essere quelli che mettevano insieme i migliori cervelli del mondo e invece eccoci qui, a piangere sulle nostre rovine”. “Perché noi siamo la terra dell’Esso quissu” scuote la testa Vittorio Festuccia, primario dell’ospedale cittadino e sfidante del sindaco Massimo Cialente nelle primarie del Pd per le elezioni municipali. In aquilano, spiega Festuccia, esso quissu vuol dire più o meno “ecco, è arrivato il signor Sapientoni”. Se poi il commento arriva all’espressione ariesso quissu, cioè, rieccolo, allora sei proprio finito.
Il clima pre elettorale per le municipali contribuisce non poco a mettere in evidenza un alto tasso di litigiosità nella cittadinanza, divisa tra partiti, comitati, associazioni, ognuno con una visione, una rivendicazione o un candidato. C’è il Comitato 3 e 32, il gruppo più acceso e il comitato Appello per L’Aquila, di cittadini e intellettuali, ci sono i partiti, da Fli al Pdl all’Udc e persino l’Mpa del siciliano Lombardo, sette o otto candidati sindaco che non si parlano tra loro, in una parata tra lo stucchevole e il sorprendente. Sorprende cioè che un’unica causa, la ricostruzione, anzi, la rinascita, possa generare così tante divisioni e contemporaneamente così tanta rassegnazione.
Rita Innocenzi, sindacalista della Fillea Cgil (edili), offre una spiegazione vagamente autolesionistica: “A tutti noi è piaciuto guardare Guido Bertolaso, l’uomo solo al comando. Per tutti era Guido. Guido qui, Guido, Guido su e Guido giù. E guardando Guido siamo caduti nella narcosi generale, imbambolati. Ora non è facile svegliarsi”.
In più, come dice Paola Inverardi, nessuno mostra agli aquilani la nuova “Città del sole”, la strada. Non c’è un cantiere che parte, la mitica filiera macina 13 milioni di euro l’anno solo per stare in piedi, il Commissario alla ricostruzione ha sputato finora 130 ordinanze talvolta contraddittorie, da tre anni i puntelli sostengono, in un immenso e surreale rammendo, ciò che resta della città, qualcuno calcola che serviranno 15, forse 20 miliardi di euro per ricostruire L’Aquila, un’intera manovra finanziaria. E allora: qualche idea?