Riportiamo il poema “Lo sfollato di campagna e lo sfollato di città” dell’autore aquilano Roberto Biondi (www.robertobiondi.org). A noi è piaciuto molto.
Premessa dell’autore: “non ho intenzione di offendere la sensibilità di nessuno, né le categorie proposte (Lo sfollato campagnolo e quello cittadino) vanno intese in senso stretto. Uno può ritrovarsi in tutti e due i protagonisti. Diciamo che ognuno rappresenta una voce ed entrambi concorrono a mostrare il duplice volto di una tragedia che ha riguardato tutti e che ha impoverito tutti, soprattutto da un punto di vista delle dinamiche sociali.
Il mio, lungi dall’essere uno scritto di denuncia, vuole provare ad unire, sia pure idealmente, i due volti di una città che appare divisa. Il mio scritto vuole riuscire a fondere i due colori della bandiera aquilana. Il nero del lutto con il verde della speranza. Spero di riuscire a non essere fonte di divisione. Spero di non offendere nessuno. Io in fondo sono un po’ l’uno e un po’ l’altro; un po’ quello di campagna, un po’ quello di città…
La metrica usata è quella della sestina narrativa, tanto cara alla tradizione umanistica e rinascimentale abruzzese. ”
Poema civile di Roberto Biondi Poetadapettino
Lo sfollato di campagna e lo sfollato di città
La notte che passaron nel terrore la stessa, senza distinzione alcuna Fu. Stessi pianti, simile il dolore Stessa l'idea di non aver nessuna Speranza per il prossimo futuro Stessa la crepa che ci fu sul muro. Diversi nella sorte, a ben guardare L'un l'altro differenti nel destino Già prima che 'l tramuoto a sconquassare Iniziasse col suo tremor meschino. Diversi nel condurre l'esistenza: L'un di sostanza, l'altro d'apparenza. Promiscui, uniti soli sulla costa Di rado si scambiavano parole Il cittadin al vero più classista Avea in disprezzo tutta quella prole Che affollava dell'albergo ingresso E si doleva nell'averla presso. Il contadin invece si scusava Più spesso che servisse, in veritate Diverso egli voleva dalla prava Gente apparir, che invece di citade Grida allo chef e a tutto il personale Lanciando il suo volgar e rozzo strale. Sfollati insiem, si ritrovaron poi Vicini pria di stanza, poi di pranzo Insieme a far la fila ai vari COI Insieme come jenca unita al manzo Trascorsero quei mesi sempre insieme senz'alleviar reciproche le pene! Il contadin desiderava in vero, Più volte ei provò ad instaurare Rapporti, e sì, ma il cittadino nero In volto era solerte ad evitare Contatti che andassero al di là D'un semplice “buongiorno“ oppure un “cià“ Il cittadin con gli abiti firmati Scendeva tronfio come s'ei non fosse Anch'ei sfollato in mezz'agli sfollati Facendo più di “Pippo“ cento mosse Prendendo il the col latte e con il miele, La torta integrale con le mele. Il rozzo contadin s'accontentava D'un goccio di caffè e due biscotti A detta sua ciò che s'apparecchiava Esagerato! E pieno di rimbrotti Col personal in modi lusinghieri: "Nu pezz'e pane e tre o quattro picchieri". Il cittadin appena lo soffriva Col suo parlare scarno, infastidito Al tavolo comun non proferiva Parola alcuna, ad indicar col dito il pane, il vino, il pepe, l'olio e il sale Così iniziò, il muto commensale. Passaron giorni e giorni e settimane Poi mesi, finalmente il cittadino Finì le sue giornate inumane In compagnia del rozzo contadino. "Deo gratias" disse con fare da duro Saltando per la hall come un canguro. Al contadin invece dispiaceva Che un altro andasse via dall'alberghetto Perché in fondo anch'egli lo sapeva Che basta poco per tornar negletto. Non serve un terremoto, nè sciagura: Socializzare è cosa di natura. Ma giunse il giorno tanto sospirato Che pure il contadin ormai sfinito Lasciasse anch'ei l'albergo che, ospitato, L'aveva accolto come uno "stilito". Ristrinse le sue cose in fretta in fretta Per poi vuotarle al MAP nuova casetta. Trovò di nuovo i suoi compaesani Ristrinse spalle amiche, conosciute E baci e abbracci a quattro e a otto mani Le nari empie furo di sapute Fragranze d'orti, campi e cereali Col dolce suono d'un battito d'ali. Il cittadin invece sfortunato Fu posto in un progetto detto C.A.S.E. Lontano dal suo luogo fu gettato In giardini d'alberelli ed erbe rase Di fianco una famiglia d'alto bordo Di sopra una venuta in “fuoribordo“. L'un l'altro coi destini differenti Sentirono gli effetti del post-sisma: (Tra pianti e grida e tra stridor di denti) Pel cittadin non erano un sofisma! Pel contadin invece era invariato Di nuovo il campo suo tornò arato. Tra i due (lapalissiano!) chi di meno Avea perduto con il terremoto: Il cittadino nel suo C.A.S.E ameno Il contadino al suo paesello noto. Solingo l'uno nel suo triste stato Contento l'altro insieme al "Terzo Stato". Passaron mesi tristi e di magone Finché un giorno forse per destino Al centro commerciale l'Aquilone Il dandy incontró il contadino. Non pòtte fare a meno di guardarlo Costretto fu pertanto a salutarlo. «Buongiorno, ben rivisto come sta?» L'esordio fu di quelli "pour parler" «Ji stengo bbonu, a tti come te va?» «Purtroppo, il sisma, inzomma, sai com'è...» E disse quattro o cinque scontatezze Insieme a sette, otto altre sciocchezze. Il contadin avea due buste piene Di spesa: leccornie e roba varia Per alleviar del desinar le pene, La moglie? Un'artista "culinaria". Il cittadin invece a mani vuote E intorno agli occhi avea fiamme di rote. Vibrava sperso gli occhi suoi smarriti Cercando d'incrociar un guardo amico Finché volgendo poi gli occhi sfiniti, Il nuovo confondendo con l'antico, E sciolse finalmente le riserve Mostrando il volto d'un soldato inerme. Diss'al compagno dello sfollamento: «Ho perso tutto quanto quella sera, Trenta secondi di uno scuotimento i sacrifici d'una vita intera Dissolti al sole caldo del mattino Ho pianto, ho pianto come un bambino». Il villico sorpreso da quel fare Non seppe proferire lemma alcuno Guardò il cittadino, poi a parlare Si diede: «senti, io non son nessuno però una cosa posso dirla tutta è vero, stemo tutti alla frutta. Però è tempo che tu amico mio Inizi a non piangerti più addosso Cerca l'aiuto ed il conforto in Dio Ritrova il coraggio che hai rimosso! Se non per te, la tua gente amata Che in Cielo quella notte è volata». Gli disse: «anch'io ho visto tanto male Il mio paese quasi raso al suolo Nella seconda guerra mondiale Ho visto anch'io morire uno stuolo Di gente. In modo assurdo ed inumano Disciolto come il ghiaccio nella mano. Di terremoti ne ho visti diversi Non solo della terra i movimenti Ho visto mani nude ed occhi spersi Ho visto fame, freddo e patimenti. Ho conosciuto il nero del dolore Ho speso la mia vita a ripartire. La crisi finanziaria, l'anteguerra Ed i bombardamenti e la paura L'occupazione dei tedeschi in guerra La vita a volte chiara, a volte scura Ho avuto, amico mio, più d'una volta. E adesso butta male, butta storta! Ma è necessario che io e te, figliolo Restiamo uniti adesso più che mai Per evitar che ancora un altro dolo Ci faccia ripiombar di nuovo in guai. Che un nuovo terremoto non ci investa Senza trovarci con la lancia in resta». E continuò a parlar a cuore aperto Al cittadino a cui, frattanto, il volto Di grossi lacrimoni fu coperto E disse: «immagino, che tu sia colto E questa cosa so che l'hai compresa Ma ecco ce sse vè a fa' la spesa! Non pó esse che, essù, non sia! Ci stanno solo i centri commerciali Insomma orsù, nu poch'e fantasia Da sempre se passeggia ajji viali. Se non ci stanno perché è "Zona Rossa" Po sempre camminà tra Villa e Fossa! Ajj'Aquilò, quatrà tu sinti a mmì Vacci a comprà nu libbro, nu vistitu Se questa è l'Agorà pe ttì, cuscì Ti dico, maaa quatrà ti sci ammattitu? Sveglia dal torpore a dritte spalle Ché 'n aquilano, frà, le tè le palle! Ché anche questa volta riusciremo Perchè cuscí è stato non è boria A sollevarci ancor finché saremo Ancora fieri della nostra storia! Al vento garrirà mai più discorde Un'AQUILA REALE neroverde!» Poi continuò dicendo al cittadino: «Mo me nne tenga ji che c'ho da fa' Smetti di fare ancora ju bambino Smitti de piagne che ce la ta fa'; T'abbraccio amico che s'è fatta n'ora Che tengo ji a piantà la pummadora» Questo poema è stato scritto, certo Da un aquilano a cui gli batte in petto Un cuore fiero il cui nome Roberto Biondi era bello e di gentile aspetto. Affila i tuoi artigli, affila il rostro Oh mia citade ché il futuro è nostro! E a chi si frapporrà a quei destini Ci pijjerà na freca de scurzini. |