da Corriere.it
Il campo di nessuno sono una dozzina di tende che si fanno compagnia, strette l’una all’altra, in un piazzale che e’ diventato una discarica, tra brande e cartoni, materassi e barattoli. Tende dove abitano ancora la famiglia indigente, la signora disabile, il tossicodipendente, i paria del terremoto. Il campo di nessuno e’ quel che resta della tendopoli di piazza d’Armi – il simbolo dell’emergenza: più di 2500 sfollati presenti, per mesi l’antenna di ogni malessere e di ogni collegamento tivù –, smantellata in gran fretta un mese fa, con foglio di via per i residenti, spediti altrove.
Verso camere d’albergo e provvisori appartamenti, lontani anche cento chilometri, in attesa del nuovo alloggiamento, quando e se verra’: tutto dipendera’ dagli ultimi controlli sul censimento, dalla lista di collocazione, dall’alfabeto (A, casa agibile; B, che necessita lavori; C, maggiori lavori; E, inagibile; F, irraggiungibile) della propria abitabilita’. Perché, sei mesi dopo, il futuro e’ una questione di lettere. E di numeri: 30mila persone da sistemare, di cui 9mila ancora in tenda tra i campi ufficiali, quelli chiusi a meta’ e l’anarchia di chi l’ha montata davanti a casa sua.
«NON ME NE VADO» – Il campo di nessuno e’ la risposta allo smantellamento: la resistenza di chi non se ne vuole andare, anche solo per paura, ché le scosse continuano, oppure non può – dovendo accudire un parente – e comunque non se la sente di abbandonare la propria terra e la propria casa, non importa se ridotta a una parvenza. È di nessuno, quel campo, perché la Protezione Civile lo ritiene gia’ chiuso e il comune non se ne fa carico. Non c’e’ più il posto di Polizia. Non ci sono più volontari. Non c’e’ più la mensa. «E l’altro giorno non c’era più neanche l’acqua calda, perché quegli irriducibili avevano esaurito pure le ultime scorte di gasolio».
A parlare e’ Pina Lauria, 54 anni, la signora che il 17 settembre s’e’ asserragliata dentro la sua casa inagibile, pur di restare in citta’: «Hanno chiuso la mia tendopoli e mi hanno mandato a Castellaffiume, nella Marsica, in attesa dell’assegnazione di una casa. Ma io non voglio e non posso andarmene dall’Aquila: devo pensare ai miei genitori che sono qui in un container e che non avrebbero potuto seguirmi». Ci sono voluti i vigili del fuoco per farla uscire. Adesso dice: «Mi sono trasferita dai miei: cos’altro potevo fare? Questa e’ protezione incivile e non ne voglio più sapere: l’unica cosa che conta per loro e’ smantellare i campi dalla sera alla mattina solo perché il governo ha detto che a fine settembre non ci sarebbero state più tende, ma senza curarsi delle ragioni degli sfollati. E di dove finiscono deportati». Deportati? Sono arrivate le casette della Croce Rossa, quelle costruite dal Trentino, a Onna. Ed ecco la prima assegnazione del progetto C.a.s.e (Comitati antisismici sostenibli ecocompatibili) a Cese di Preturo a Bazzano. Insomma, e’ partita l’operazione alloggiamento, eppure la frase che più ricorre, visitando gli accampamenti – ancora a regime, nonostante la promessa che «a fine settembre niente più tende» – e raccogliendo le storie della gente, lontano dai nastri e dalle cerimonie, e’ proprio questa: «No alla deportazione ». Sta scritto sulle vetrine di quelli che furono negozi e son venuti giù a pezzi; sulle lenzuola appese lungo le strade; sui comunicati di cittadini come quelli che, la settimana scorsa, si sono ritrovati fuori dalla graduatoria di assegnazione delle C.a.s.e. e hanno protestato «perché ci sono famiglie che figurano due volte e altre inspiegabilmente assenti, pur avendo avuto dei feriti».
I MESSAGGI PRIMA DI LASCIARE IL CAMPO – Anche i terremotati di Piazza d’Armi, prima dell’addio, hanno lasciato i loro saluti sulle gradinate della pista di atletica. Dice un messaggio tra i tanti, che sembra il bollettino di un’ultima scossa al morale: «h 16.15. Dep. in G.d.F., non c’e’ più fine al peggio, speriamo bene, 5.09.09». Possibile che finire a Coppito, nella scuola della Finanza, dove ha dormito pure Barack Obama, sia una deportazione? «Sì, qui sei sempre sotto il loro controllo, come se avessi fatto qualcosa di male», piange la signora che resta senza nome, per paura di sentirsele rinfacciare queste sue parole. In realta’, quello che fa più paura ai terremotati, in questi giorni di smantellamenti e assegnazioni, e’ la diaspora. Non solo la propria deportazione, ma quella di tutti, di tutto un paese. Sì, le case sono andate giù e certi centri storici, come Camarda o San Gregorio, sono diventati un’unica «zona rossa», epperò le tendopoli montate a un passo dal proprio passato hanno tenuto insieme le famiglie, i bambini, gli anziani. Ancora quest’estate, i viali di tela blu sembravano comunque strade di paese: abitate, vive. Ma adesso che i villaggi blu spariranno e le persone verranno spedite, da qui a dicembre, tra la Marsica e la costa o anche in alberghi diversi dell’Aquila, la gente sente che anche il tessuto sociale, come le loro case, si spezzera’.
«ABBIAMO FATTO UN MUTUO PER COMPRARE UNA CASETTA DI LEGNO»
«È per questo che non ce ne siamo andati ad Avezzano o dove ci volevano mandare e abbiamo detto alla protezione civile: grazie, ma facciamo da noi e qui restiamo. E pazienza se il contributo per “l’autonoma sistemazione” e’ di appena 600 euro al mese». Marilena Iovenitti indossa una maglia nera con un cuore argentato dove e’ stampato I love L’AQ e, sotto, la data del 6 aprile, la notte che la sua vita e’ cam biata. La signora ha resistito sei mesi in tenda assieme alla famiglia: figli, sorella, nipoti, mariti, genitori e il nonno disabile di 99 anni. In dieci in 20 metri quadrati. Figurarsi, allora, se lascera’ Camarda, «anche perché la casa che ci sarebbe toccata, a Paganica, sarebbe stata una delle ultime a essere assegnata: hanno sbagliato a mettere giù una piattaforma e hanno ricominciato daccapo». Così gli Iovenitti hanno fatto una gita a Pineto, hanno comprato una casa in legno di 80 mq, e hanno deciso di fare da soli. «Qui, sotto il Gran Sasso, l’inverno ti arriva addosso da una notte all’altra, eppure avremmo resistito ancora. Però ci mandavano via dalla tenda e allora siamo andati in banca e abbiamo fatto un mutuo, visto che avevamo un po’ di terreno». Eccola qui gia’ in piedi, a un passo dalla tendopoli. «Ci e’ costata 32mila euro, l’abbiamo montata in due giorni. Non e’ grande abbastanza per dieci persone, ma rispetto alla tenda ci sembrera’ di sentire l’eco, quando ci chiameremo da una stanza all’altra. Certo, con un aiuto maggiore…».
Quello che non capiscono le famiglie che in qualche modo si arrangiano da sole e’ quel contributo di 600 euro a nucleo di almeno tre persone. Perché resta loro incomprensibile la cifra che lo Stato paga per gli sfollati in albergo: «Ci rimborsano 55 euro a persona al giorno», spiega Alberico Contini, direttore del Federico II a L’Aquila, in gran parte requisito per fornire alloggio provvisorio, fino a quando i moduli abitativi non saranno tutti pronti. Insomma, fino a dicembre, secondo il calendario del governo. «Altro che dicembre», sorride invece Contini «Mi hanno detto che avrò terremotati in albergo ancora per un anno».
«È COME SE AVESSERO CERCATO IN TUTTI I MODI DI DISINCENTIVARE L’INIZIATIVA PRIVATA» Facciamo un po’ di conti: 55 euro a persona, per un nucleo medio di quattro persone, fa 6mila e 600 euro al mese. Tanto costa il loro mantenimento: dieci volte quello che riceve una famiglia che si arrangia da sola, in affitto o acquistando un prefabbricato. «Sì, uno spreco. Ed e’ come se avessero cercato in tutti i modi di sponsorizzare queste nuove case, disincentivando il fai-da -te», spiega Vincenzo Vivio, architetto nato a Paganica e residente all’Aquila con la sua famiglia, la moglie e sei figli, prima che il terremoto gli stravolgesse la vita. «Purtroppo nelle nuove case non sono previsti appartamenti per le famiglie numerose. Come ci siamo arrangiati? Una figlia vive a Londra. Altri tre stanno con me qui, ad Assergi, nell’albergo Fiordigigli che ci e’ stato assegnato. Mia moglie invece ha trovato lavoro a Pescara ed e’ lì con Cesare e Pietro, che frequenteranno sulla costa la quinta e la prima elementare. Con la morte nel cuore sono andato dalla preside a chiedere il nullaosta per il trasferimento e purtroppo non ero il solo: ma come facevo a far vivere due bambini quassù in albergo?» Sicché il signor Vivio fara’ il pendolare, da un pezzo di famiglia all’altra, senza trascurare il coro che dirige e che ha gia’ cantato alla Rai e nelle tendopoli: «Un modo per stare assieme, per restare comunita’. Anche se quello che m’ha fatto più male e’ stata la storia delle case di Paganica. Ah, non lo sa? Il Trentino, ancora mesi fa, ci aveva offerto le stesse casette che sono state consegnate a Onna. Erano un’ottima soluzione per passare subito dalle tende a un tetto, restando assieme. E l’assemblea dei cittadini era orientata su questa scelta e anch’io mi sono battuto per dire “sì”. Fino a quando ha preso la parola Bertolaso, il capo della Protezione Civile, criticando pesantemente il progetto, sponsorizzando le sue C.a.s.e. e arringando la gente ormai disorientata: “Ma voi a Paganica, cosa volete: case o baracche?”. Figurarsi, tutti a gridare: “Le case, le case”. Così io ho rimediato una figuraccia e le cosidette baracche le ha prese, ben contento, il comune di San Demetrio de’ Vestini, dove sono gia’ state montate. Pensi che amarezza quando due settimane fa il presidente del consiglio ha inaugurato quelle di Onna, dicendo: “Sono vere ville”. Prima erano baracche, adesso sono diventate ville e intanto le nuove case di Paganica chissa’ quando saranno pronte». Il clima e’ cambiato, nell’ultimo mese, sotto il cielo d’Abruzzo sempre più spesso grigio. E nonostante le assegnazioni delle prime case, non proprio in positivo. È il momento più difficile nei rapporti tra Protezione Civile, in uscita, e cittadinanze che tornano sotto la tutela dei loro municipi, perché c’e’ paura di non veder riconosciuti i propri diritti, di essere scavalcati da amicizie e clientele e soprattutto di non vedere la ricostruzione. Ecco, se c’e’ una parola che non ritorna e’: ricostruzione. «Non e’ mai cominciata e i soldi che servivano per rifare le nostre case sono finiti per costruire, notte e giorno, quelle provvisorie, mentre il centro storico dell’Aquila resta in un silenzio spettrale, perché?», chiede la lettera inviata, da tre comitati, al presidente Napolitano.
A Barisciano, l’altra mattina, non si vedeva più in la’ di un metro e comunque nulla si sarebbe visto perché sopra le piattaforme, pronte per ospitare i moduli abitativi, non c’era nulla, ancora. Tanto che il sindaco ha chiesto alla Protezione Civile di tenere aperta la tendopoli almeno un altro mese. «Noi siamo stanchi, non più di tanti, ma resteremo volentieri. Non si può mandare via, magari lontano, tutta questa gente che e’ nelle tende e deve curare ogni giorno le bestie che ha nei capanni, perché questo e’ un paese soprattutto di allevatori », spiega Luigi Cuberli, il capo-campo piemontese del paese che ospita in tenda ancora 380 persone. «Le case? Non so quando saranno pronte. La ditta che ha vinto l’appalto, per questo e altri tre comuni, mi sembra in ritardo. Magari e’ una piccola azienda e fatica a produrre in poco tempo così tanto da coprire in fretta il fabbisogno. Purtroppo qui siamo a mille metri d’altitudine e il freddo si fa gia’ sentire». Anche se non sembra il solo problema. «Il guaio e’ che siamo rimasti soli. I carabinieri che presidiavano il campo se ne sono andati e qualche notte fa mi e’ toccato rincorrere un terremotato che cercava di rubare le provviste. È un tizio che e’ qui agli arresti domiciliari, dopo cinque anni di carcere. Vede il camper più bello? Quello vicino alla tenda più a sinistra? È il suo. Ma io qui mica posso fare il poliziotto».
L’ULTIMO GIOCO DEI BAMBINI DELLE TENDOPOLI È IL “MONOPOLI” DELLE CASE AGIBILI OPPURE NO – L’impressione e’ di uno scollamento tra ieri – emergenza garantita alla meglio, vigili del fuoco formidabili, popolazione pronta a sacrificarsi – e domani, quando si comincera’ a ricostruire: perché l’oggi che si avvista, tra deportazioni e assegnazioni, sembra sospeso in una nuvola di emozioni nuove – senso di abbandono, rabbie, gelosie – davvero complicato da gestire. Anche perché i numeri sembrano non tornare: servono più case di quante si potesse immaginare al tempo delle prime ricognizioni. E allora, ecco venir buoni anche alberghi in posti lontani, appartamenti sfitti che saranno requisiti – anche perché sta partendo un’asta del dolore a prezzi impossibili: strozzinaggi da 1500 euro per un bilocale al quale, con un genitore disabile al fianco, non si può rinunciare –, fino alle case di paglia di Pescomaggiore. «Sì, di paglia. Le balle di fieno arrivano dalla Marsica, noi le pressiamo e poi, abbinate a una lastra di legno da un lato e intona cate dall’altro, eccole diventare parete», racconta l’avvocato Dario D’Alessandro, uno dei curatori del progetto. che salvaguarda il territorio garantendo chi – e sono tanti – ha paura a ritornare, sei mesi dopo, sotto un tetto. Perché il terremoto e’ un lupo che ti soffia via le certezze, ma al contrario di quello della favola, fa più male alle case di mattoni che a quelle di legno o di paglia.
«Questa casa e’ E». «No, e’ solo F». «Vero che quella e’ B? Visto che ho indovinato?». È l’ultimo gioco dei bambini delle tendopoli: il Monopoli dei danni, parete per parete, subiti da case che non ripasseranno tutte dal via, ché molte tocchera’ abbatterle, e con il mazzetto degli imprevisti cento volte più alto di quello delle possibilita’. Ma Klaris e’ troppo piccola per giocare all’alfabeto delle case. Ha solo 5 mesi e poi non esiste: non e’ contemplata nelle liste e neppure il suo nucleo familiare. «Ci hanno detto che il posto non ci spetterebbe, ma di restare comunque qui e di far finta di niente finché non ci diranno di andare via». Qui e’ una camera d’albergo. Le parole preoccupate sono della mamma di Klaris, Veronica Anatriello. E il ci sono loro due più il marito-papa’ Belilaj, che fa il muratore. Beh, questa famiglia per l’algoritmo che determina le graduatorie, non esiste. «Klaris e’ nata il 23 maggio e, come previsto, ci siamo sposati e l’abbiamo battezzata l’8 agosto, quando mio marito avrebbe avuto le ferie. Solo che nell’istantanea del terremoto non c’eravamo: io stavo ancora coi miei, casa A, ma troppo piccola per cinque; mio marito stava coi suoi, casa A, sempre troppo piccola. Difatti, appena nata Klaris, saremmo andati a vivere col nonno, oggi casa E, inagibile: un casa che però non ci viene riconosciuta come residenza. Non esistiamo e non ci spetta nulla». Ché in questa corsa contro il tempo – anche atmosferico – verso un’assegnazione provvisoria, c’e’ anche chi parte senza pettorale, sperando di arrivare in fondo, in qualche modo. Come la signora Quirina che ha abitato uno scompartimento del Sulmona, uno dei treni inchiodati alla stazione. Ci vivono ancora, i terremotati, ma la signora – che non ha mai voluto abbandonare L’Aquila – ha avuto assegnata una delle C.a.s.e. di Bazzano. E la sua vita, in qualche modo, potra’ ripartire dove s’era fermata. Che, per gli sfollati, e’ l’unica cosa che conta: a costo di restare qualche giorno ancora nella tenda che si vuole smontare, ma garantendo – anche a quelli del campo di nessuno – l’assistenza. Perché ogni attore di questo dramma e’ una storia a sé: e, a sentir loro, conta solo continuare a resistere, a esistere dove si e’ vissuto, e poco o niente se il governo, bruciando le tappe, battera’ o meno il record del mondo dell’efficienza.