Gian Paolo Cavinato spiega perché i due terremoti hanno avuto conseguenze così differenti: “La potenza non è l’unico elemento. Va valutata la composizione del sottosuolo e la morfologia geologica dell’area interessata dalla scossa”. (di Piera Matteucci)
6 aprile 2009, ore 3.32, L’Aquila. Un terremoto di magnitudo 6.3 distrugge il capoluogo dell’Abruzzo. Sono 309 i morti in città e nei paesi vicini, tantissimi i feriti. Nel centro storico, ma anche in periferia, crollano monumenti, chiese e palazzi. Migliaia di persone restano senza casa.
20 maggio 2012, ore 4.04, Emilia. Un sisma di magnitudo 6 fa crollare qualche chiesa e alcuni monumenti, ma poche case e qualche fabbrica. Le vittime sono sei: 4 operai che al momento della scossa, intorno alle 4 di notte, lavoravano in una fabbrica e due donne, una delle quali colta da malore.
Immediato il confronto tra i due eventi che, a prima vista simili, hanno causato conseguenze molto diverse. “Quando si verifica un terremoto, i fattori da prendere in esame per capirne l’entità e ciò che comporta sono molteplici – spiega Gian Paolo Cavinato, ricercatore dell’Istituto di Geologia del Cnr-. La magnitudo tra il sisma dell’Aquila e quello di oggi apparentemente si differenzia di poco, ma non è così. La misurazione, infatti, avviene secondo una scala logoritmica che, per ogni punto, indica una potenza notevolmente maggiore”.
Quindi la potenza che si è sprigionata in Abruzzo, con il terremoto di 6.3, è stata superiore a quella registrata oggi in Emilia, dove la scossa ha raggiunto il grado 6 della scala Richter. Ma il grado di magnitudo è solo il primo elemento. “Fondamentale – dice Cavinato – è prendere in esame la struttura geologica del territorio: il terremoto dove oggi si è verificato in Pianura Padana, è un’area a medio-eleveto rischio sismico, ma dove è ‘sepolta’ l’estremità settentrionale dell’Appennino. L’Aquila è in un’area montuosa, vicinissima al Gran Sasso all’interno di una valle: gli effetti di propagazione delle onde sono molto differenti. Nelle zone montuose, infatti – aggiunge il ricercatore – ci può essere un’amplificazione maggiore. Inoltre, la composizione geologica dei terreni affioranti e sepolti è fondamentale: la roccia reagisce all’oscillazione di un sisma in modo completamente diverso da quello che fa un terreno soffice, che in caso di terremoto vibra molto di più”.
Poi c’è da tenere presente che tre anni fa il sisma ha colpito un capoluogo di regione, con una densità di popolazione nettamente superiore a quella che si registra nell’area emiliana. “Se il terremoto fosse avvenuto in prossimità di un centro abitato più grande – specifica Cavinato -, probabilmente il bilancio sarebbe stato peggiore. Ma non bisogna dimenticare che una parte importante, nella conta dei danni, la fa anche il modo in cui sono stati costruiti gli edifici: oggi sono stati prevalentemente danneggiati i palazzi più vecchi. All’Aquila sono venuti giù anche palazzi di costruzione recente”.
Un terremoto è impossibile da prevedere, ma non lo è prevenirne le conseguenze, grazie allo studio del territorio. “In questo – dice ancora Cavinato – l’Emilia Romagna è all’avanguardia con ricerche volte proprio alla prevenzione dei rischi legati agli eventi sismici. Il sisma dell’Aquila, infatti, ci ha insegnato molto e tutte le regioni, insieme alla Protezione civile, stanno dedicando risorse e forze alla realizzazione di carte di microzonazione sismica. In pratica si tratta di carte estremamente dettagliate nelle quali si suddivide il territorio in base alla composizione del sottosuolo, si identificano le zone che possono subire oscillazioni maggiori o minori, si studiano le caratteristiche geologico-tecniche dei terreni e le loro reazioni alle onde sismiche. In questo modo si individuano le aree stabili e quelle instabili, segnalando eventuali criticità. La prevenzione – conclude il ricercatore – è al momento l’unica arma in nostro possesso contro i terremoti ed è importante realizzare strumenti operativi per la riduzione del rischio sismico”.
(Piera Matteucci, da Repubblica.it)