«Ormai in quel lido, non altra opera umana si compie che l’ultima; il seppellimento. Non si aggirano tra le rovine se non fossori. E i fossori sono militi, come dopo una battaglia. E fu invero una battaglia quale mai non si raccontò nella storia degli uomini. Una immensa torma di cavalli […] sembrò passare al galoppo, sottoterra, nella fragorosa carica di un minuto. Una bocca di fuoco sparò […] col rombo di cento cannoni in uno, nel cupo silenzio della notte. E il mare si alzò di cinquanta metri, e la terra si abbassò e poi balzò su. E un soffio vastissimo di luce rossa, come un’improvvisa aurora boreale, alitò dal lido opposto; e un astro o più astri si sgretolarono in cielo. Fu una battaglia davvero, ma di Titani, ridesti dal loro sonno millenario in fondo agli abissi, e ritrovatisi in cuore la terribile loro collera primordiale. Ora in quel campo di battaglia, battaglia durata un attimo, dopo quindici giorni si procede all’opera ultima e postuma».
Con queste parole commosse Giovanni Pascoli commemorò nel gennaio 1909 all’Università di Bologna le vittime causate dal terremoto e dal maremoto che il 28 dicembre 1908 avevano devastato entrambe le sponde dello Stretto di Messina. Fu quella la più grave catastrofe che il giovane Stato italiano si trovò ad affrontare per l’altissimo numero di morti e le distruzioni subite da centinaia di centri abitati. Il suo impatto sulla pubblica opinione fu straordinario e lasciò un’impronta indelebile non solo nella realtà delle aree colpite, ma anche nella coscienza e nella memoria storica del Paese e dell’intera Europa. Al di là dell’emozione suscitata dalle molte migliaia di vittime, questa fama si spiega col fatto che furono distrutte due città importanti come Reggio Calabria e, soprattutto, Messina, che era il capoluogo economico e geografico dello Stretto e il cui porto era d’importanza strategica e commerciale lungo le rotte che collegavano i bacini del Tirreno e del Mediterraneo centrale con il canale di Suez. |
Ciò che oggi sappiamo sugli effetti del terremoto e del maremoto del 28 dicembre 1908 deriva da un insieme di fonti di vario tipo (giornalistiche, istituzionali e scientifiche) e la ricostruzione più recente e completa del quadro complessivo di tali effetti è contenuta nell’articolo di Guidoboni e Mariotti (2008), di cui questo post rappresenta una breve sintesi. Tale articolo è parte del volume antologico Il terremoto e il maremoto del 28 dicembre 1908 (2008), pubblicato nel centenario dell’evento dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e dal Dipartimento della Protezione Civile, che fa il punto a un secolo di distanza sulle conoscenze di carattere storico e scientifico accumulate su questo evento epocale.
Anche le dinamiche a lungo termine della grande opera di ricostruzione sono state estesamente indagate dal punto di vista economico e sociale. Una notevole raccolta di contributi riguardanti la storia urbanistica, la progettazione architettonica e il restauro è contenuta nel volume antologico 28 dicembre 1908: la grande ricostruzione dopo il terremoto del 1908 nell’area dello Stretto (2008), pubblicato anch’esso in occasione del centenario.
Le principali fonti storiche e scientifiche
Per quanto riguarda il versante scientifico, il terremoto del 1908 fu oggetto di una serie innumerevole di studi sismologici. Molti dei maggiori studiosi mondiali di scienze della Terra se ne occuparono all’epoca e da allora sono centinaia i lavori specifici che l’hanno indagato da diversi punti di vista disciplinari: dalle modalità di propagazione delle onde sismiche, all’analisi degli aspetti geologici, alle ricadute in campo ingegneristico. Le indagini più dettagliate sugli effetti furono condotte da tre scienziati di chiara fama: l’abate Giuseppe Mercalli, che ha dato il nome alla nota scala d’intensità per classificare gli effetti dei terremoti; Mario Baratta, illustre fondatore della sismologia storica italiana; Giovanni Platania, docente di Fisica terrestre all’Università di Catania, che studiò a fondo gli effetti del maremoto.
Mario Baratta fu autore del lavoro più completo e autorevole per conoscere da osservazioni dirette il terremoto del 1908. La sua grande opera, La catastrofe sismica calabro messinese (1910), rappresenta un punto di riferimento metodologico nell’ambito degli studi di sismologia e ancora oggi si impone all’attenzione degli studiosi per la qualità e la sistematicità delle informazioni, unite a una grande chiarezza di esposizione, motivata dall’intenzione di divulgare il più possibile quei dati. Baratta compì due missioni nei luoghi devastati dal terremoto: la prima, dal 5 al 20 gennaio 1909, durante la quale fu impegnato soprattutto a Messina; la seconda, nel mese di febbraio, quando visitò Reggio Calabria e il litorale tirrenico della Calabria. Terminate le missioni sul campo, lavorò poi per circa un anno a organizzare i dati raccolti — avvalendosi, oltre che delle sue osservazioni, dei numerosi rapporti che aveva ricevuto da sottoprefetti, sindaci, parroci e altre autorità delle zone colpite — e alla redazione del testo definitivo che fu pronto per la stampa nel marzo 1910.
Giuseppe Mercalli compì una ricognizione più limitata: nell’aprile 1909, visitò personalmente Messina, Reggio e alcune delle località calabresi più colpite. Ricevette inoltre molti dati dalle prefetture e dagli uffici tecnici della Finanza e del Genio civile. Nonostante alcune imprecisioni, la sua relazione è ricca di osservazioni sui danni materiali, sugli effetti sui suoli, sul grande maremoto che colpì le coste della Sicilia e della Calabria. Mercalli (1909) fu inoltre il primo studioso a elaborare un elenco di località classificate con i gradi di intensità, utilizzando la sua scala macrosismica, a cui proprio in questa occasione, di fronte alle immani dimensioni delle distruzioni, aggiunse il grado XI (“catastrofe”).
Le informazioni più importanti sugli effetti del maremoto che si abbatté sulle sponde dello Stretto subito dopo la grande scossa furono raccolte da Giovanni Platania (1909) che le rese note in uno studio pubblicato nel Bollettino della Società Sismologica Italiana. L’autore visitò direttamente tutti i siti colpiti sulla costa orientale della Sicilia e alcune delle località più devastate sulla costa calabrese. Raccolse i racconti dei testimoni diretti dell’accaduto e valutò l’altezza raggiunta dalle onde misurando i segni lasciati sui muri o sul terreno mediante precisi strumenti ottici.
Tra le molte rilevanti fonti istituzionali, va segnalata l’ampia relazione della Direzione generale dei servizi speciali del Ministero dei Lavori Pubblici (1912), pubblicata al termine della fase dell’emergenza. Tale relazione traccia il consuntivo dell’attività svolta dal governo nei comuni colpiti per la messa in sicurezza degli edifici pericolanti e per la costruzione di baracche per i senzatetto e gli uffici pubblici rimasti privi di sede. Allegata a questa relazione vi è una dettagliata tabella riassuntiva dei danni e delle vittime relativa a tutti i Comuni delle province più colpite.
Un contributo rilevante all’analisi di dettaglio degli effetti è fornito dalla vasta documentazione fotografica, che ci è pervenuta grazie al lavoro di un gran numero di fotografi italiani e stranieri nell’area del disastro. Va ricordato, in particolare, il volume curato dalla Società Fotografica Italiana (1909), un’eccezionale raccolta di oltre 600 fotografie, che documentano in modo realistico ed efficace il “prima” e il “dopo” delle città di Messina, di Reggio e di molti paesi della Calabria. Pensato all’epoca come un mezzo per trasmettere la memoria dell’antico aspetto delle località e degli edifici monumentali azzerati dal terremoto, questa raccolta è oggi uno strumento straordinario per lo studio degli effetti del terremoto e del maremoto su paesi e singoli edifici. Le devastazioni causate dal terremoto e la situazione di emergenza estrema in cui versavano le popolazioni subito dopo la catastrofe sono documentate anche da alcuni rarissimi filmati cinematografici.
Il terremoto
Il grande terremoto avvenne all’alba del 28 dicembre, alle ore 5:20:27 locali. L’ora esatta risulta dal sismogramma registrato all’Osservatorio di Messina, salvato dal sismologo Emilio Oddone, che fu tra i primi studiosi a giungere sui luoghi del disastro. La durata della scossa percepita dalle persone fu di 30-40 secondi e, secondo la maggioranza dei testimoni, fu divisa in due o tre fasi distinte, di cui l’ultima molto più violenta. Il valore di magnitudo fu di 7.1, secondo i dati convergenti risultanti dalle analisi delle registrazioni strumentali e delle stime macrosismiche.
I danni più gravi (equivalenti a effetti di XI e X grado della scala MCS) furono rilevati in un’area di circa 600 km2: in 76 località della provincia di Reggio Calabria e in 14 della provincia di Messina ci furono distruzioni devastanti, estese dal 70 al 100% delle costruzioni. Nel Messinese l’area delle distruzioni pressoché totali fu ristretta al territorio del comune di Messina e comprese, oltre alla città, diverse frazioni litoranee o dell’immediato entroterra. A Messina il terremoto fu catastrofico e distrusse completamente il tessuto urbano: abitazioni, edifici pubblici civili ed ecclesiastici, infrastrutture. Le costruzioni che resistettero furono incredibilmente poche: secondo i dati del Ministero dei Lavori Pubblici soltanto due case risultarono illese. Tutte le altre crollarono totalmente o ne rimasero in piedi solo le pareti esterne, mentre collassarono tetti, solai, muri divisori e scale.
Pure in questo quadro di distruzione generale, fu rilevato che gli effetti furono più catastrofici nei quartieri antichi e più bassi della zona centrale della città, fondati su terreni alluvionali poco stabili e dove la qualità del patrimonio edilizio era generalmente pessima. Gli edifici erano infatti troppo alti, quasi sempre non in seguito a un progetto di edificazione organico, ma a causa di successive sproporzionate soprelevazioni, senza un adeguato rafforzamento delle fondazioni, che risultavano dunque insufficienti. I muri erano troppo sottili in relazione all’altezza, spesso costruiti con ciottoli di fiume o con mattoni tenuti insieme da scarso cemento. I tetti e i solai risultavano eccessivamente pesanti e mal connessi con i muri maestri: per questo in molti casi sprofondarono anche quando le murature esterne rimasero in piedi. Gli effetti furono un po’ meno disastrosi nella parte alta più periferica della città, dove gli edifici erano fondati su terreni più stabili e compatti, e nei quartieri nuovi dove la qualità delle costruzioni era migliore.
In Calabria il terremoto ebbe effetti distruttivi in un’area molto più estesa di quella siciliana, comprendente tutto il versante occidentale del massiccio dell’Aspromonte. In molte località, inoltre, i danni del 1908 si sovrapposero a quelli non adeguatamente riparati causati dai precedenti terremoti del 1894, 1905 e 1907. Oltre che a Reggio Calabria, la scossa fu disastrosa in diversi centri abitati importanti, come Calanna, Sant’Alessio in Aspromonte, Sant’Eufemia in Aspromonte, Villa San Giovanni, e in tutte le località della costa, a nord e a sud di Reggio, rimaste poi devastate anche dallo tsunami che seguì la scossa.
A Reggio le distruzioni, di entità inferiore rispetto a Messina, risultarono estese a circa l’80% degli edifici. Anche in questo caso, il disastro fu causato non solo dall’estrema violenza della scossa, ma anche da fattori di debolezza strutturale dell’edilizia urbana. Tutta la parte bassa della città vicina al mare era infatti fondata su terreni alluvionali poco consistenti; inoltre, durante la fase di ricostruzione seguita ai terremoti del 1783, l’andamento altimetrico originario delle vie era stato corretto con estesi lavori di sterro e livellazione a causa dei quali, in diverse zone dell’area urbana, gli edifici erano fondati su terreno di riporto.
Le condizioni statiche degli edifici erano poi in genere scadenti per la cattiva qualità dei materiali utilizzati e per la scarsa manutenzione. Il crollo della caserma Mezzacapo, in cui morirono oltre 270 militari, fu indicato da tutti gli osservatori dell’epoca come l’esempio più emblematico della pessima costruzione degli edifici, anche di quelli pubblici. I muri di questo grande fabbricato a due piani risultarono infatti costruiti con grossi ciottoli e frammenti di mattoni, legati da cemento con poca calce e molta sabbia terrosa; i soffitti erano sostenuti da travicelli di sezione troppo sottile e poco incastrati nei muri di sostegno. Questi evidenti difetti di costruzione erano già stati segnalati in occasione del terremoto del 1894, che aveva gravemente danneggiato la caserma, senza che le autorità competenti intervenissero per sanare la situazione.
Sia a Messina sia a Reggio Calabria fu quasi azzerato il patrimonio storico-monumentale. La scomparsa di chiese, monasteri e palazzi, distrutti o demoliti dopo il terremoto, cancellò pressoché totalmente l’eredità storica urbana delle due città, già depauperata da precedenti terremoti (su questo specifico aspetto si veda il contributo di Ciuccarelli, 2008).
Distruzioni estese fino al 50% circa degli edifici (equivalenti a effetti di IX grado) furono rilevate complessivamente in 38 paesi: 27 in Calabria, fra cui alcuni paesi del versante ionico dell’Aspromonte; 11 in Sicilia, comprese alcune località delle estreme propaggini settentrionali dei monti Peloritani. L’area all’interno della quale gli effetti del terremoto furono gravi, con crolli totali limitati, ma con molti edifici gravemente lesionati e resi inagibili (equivalenti a effetti di VIII o VII-VIII grado) fu molto vasta e comprese oltre 170 località. Tale area include, in Calabria, la piana di Gioia Tauro, la Grecanica, la Locride e arriva fino alla penisola di capo Vaticano e alle località dell’istmo di Marcellinara, in provincia di Catanzaro; in Sicilia, comprende tutto il versante ionico dei Peloritani fino alle pendici nord orientali dell’Etna.
Secondo i dati statistici rilevati dal Ministero dei Lavori Pubblici (1912), approssimati per difetto, nelle tre province di Messina, Reggio Calabria e Catanzaro (che all’epoca comprendeva anche l’attuale provincia di Vibo Valentia), le case distrutte o demolite furono oltre 40.000; quelle gravemente danneggiate e rese totalmente o parzialmente inabitabili circa 33.000; quelle lesionate circa 68.000. Danni più leggeri, con crolli sporadici e lesioni in un numero complessivamente limitato di case o edifici pubblici, furono rilevati in oltre 400 paesi sparsi su un’area estesa, in Calabria, fino alle province di Crotone e Cosenza, e in Sicilia fino ad alcune località delle province di Enna, Caltanissetta, Agrigento e Ragusa.
La scossa fu percepita dalle persone in un’area vastissima: in direzione nord fino all’isola d’Ischia e alla provincia di Campobasso; verso est fino al Montenegro, all’Albania e alle isole Ionie della Grecia; in direzione sud fino all’arcipelago maltese; a ovest fino a Ustica e ad alcune località della provincia di Trapani.
Per la descrizione degli effetti in tutte le 802 località della Calabria (462) e della Sicilia (240) in cui furono rilevati danni (fino al VI grado di intensità), si veda il contributo di Guidoboni e Mariotti (2008, pp. 39-108).
Il maremoto
Segnalato dai testimoni da 5 a 10 minuti dopo il terremoto, il maremoto fu di violenza straordinaria e lasciò in desolazione entrambe le coste dello Stretto. Sulla costa orientale della Sicilia l’altezza massima delle onde fu compresa tra 6 e 9.50 metri circa e fu rilevata nel tratto compreso tra la foce della fiumara Portalegni, subito a sud del porto di Messina, e Giardini Naxos, con una punta estrema di 11.70 metri a Sant’Alessio Siculo, dovuta alla particolare conformazione della costa in quel punto. Più a sud, fino a Capo Passero, l’altezza delle onde decrebbe progressivamente, ma fu comunque notevole fino a Ognina, oggi quartiere periferico della città di Catania, dove fu di circa 5 metri. Nel porto di Messina l’altezza delle onde non superò i 3 metri e nelle località a nord della città fino a Torre Faro fu in genere minore. Sulla costa settentrionale della Sicilia, il maremoto fu meno sensibile e l’altezza fu sempre minore di un metro. Sulla costa meridionale dell’isola e più a sud, nell’arcipelago maltese, furono invece rilevate altezze comprese tra 0.70 e 2 metri.
Sulla costa calabrese l’altezza massima delle onde fu compresa tra i 6 e gli 11 metri circa nel tratto da Gallico Marina a Lazzaro, con un massimo di circa 13 metri rilevato in un punto poco a sud del paese di Pellaro. A nord di quest’area, il maremoto ebbe dimensioni ancora rilevanti sulle coste reggine dello Stretto fino alla Punta Pezzo, e fu invece molto ridotto lungo il litorale tirrenico della Calabria. Anche verso sud, tra Capo dell’Armi e Capo Spartivento, e lungo tutta la costa ionica calabrese, le onde di maremoto furono progressivamente meno alte e violente, con l’eccezione dei dati, forse errati, rilevati a Roccella Jonica e Cirò Marina dove l’altezza delle onde avrebbe superato i 6 metri.
In alcune delle località il maremoto aggravò enormemente le distruzioni causate dal terremoto e fece molte vittime tra le persone scampate ai crolli. In questi paesi le devastazioni furono dovute alla posizione degli abitati edificati a breve distanza da basse spiagge sabbiose. In altre località, come Alì Terme, Fondachello o Giampilieri Marina, dove pure lo tsunami raggiunse altezze impressionanti, i danni furono limitati e non ci furono vittime perché non c’erano case edificate vicino alla spiaggia. In Guidoboni e Mariotti (2008, pp. 109-122) sono riportate le descrizioni sintetiche degli effetti del maremoto in tutte le 104 località della Calabria, della Sicilia e dell’arcipelago maltese per cui sono state reperite informazioni specifiche.
Effetti sull’ambiente naturale
Importanti sconvolgimenti segnarono il paesaggio soprattutto nell’area dello Stretto dove lo scuotimento fu maggiore. Fu misurato un abbassamento del suolo della parte bassa di Messina; un fenomeno simile fu osservato anche a Reggio Calabria e a Villa San Giovanni. Notevoli variazioni della linea di costa furono riscontrate in numerose località calabresi, dove il terremoto e il maremoto accelerarono la lenta immersione del litorale già in atto. Presso Pellaro la costa arretrò in alcuni punti di 50 m circa; a Gallico Marina la spiaggia perse 10 m di larghezza. In un’area molto vasta della Calabria e della Sicilia il terremoto attivò frane, smottamenti e scoscendimenti, si aprirono spaccature nel suolo, in generale limitate ai terreni superficiali, e ci furono parziali spostamenti e lenti o rapidi scivolamenti dei terreni. Non furono tuttavia rilevati fenomeni interpretabili con certezza come effetti di fagliazione superficiale (su questi aspetti si veda il contributo specifico di Caciagli 2008).
Dopo il terremoto in molte località ci furono variazioni di breve durata nella portata delle sorgenti. Gli effetti più rilevanti sulle acque sotterranee furono osservati nel territorio di Termini Imerese (PA), a notevole distanza (170 km circa) dall’area più colpita.
L’impatto del terremoto sull’uomo
Il mancato recupero di molti cadaveri, rimasti sepolti sotto le macerie o scomparsi in mare a causa del maremoto, i flussi migratori successivi, la perdita dei registri di stato civile, non consentirono di stabilire con precisione il numero complessivo dei morti. Si può tuttavia affermare che il terremoto del 1908 costituì un episodio di mortalità catastrofica: la stima più accreditata valuta infatti le vittime in tutta l’area colpita attorno alle 80.000 unità.
Le perdite umane furono ingentissime soprattutto a Messina e a Reggio Calabria. Secondo stime di massima della Prefettura, nel comune di Messina il numero delle persone decedute era di 65.000, circa il 42% della popolazione totale; secondo i dati raccolti dal Ministero dei Lavori Pubblici, nella sola città di Messina i morti furono circa 50.000, cioè il 45% degli abitanti della città. Il comune di Reggio Calabria stimò in 15.000 il numero dei morti in tutto il territorio comunale, pari al 34% della popolazione; secondo il Ministero dei Lavori Pubblici le vittime furono complessivamente 12.000 (27%). Nelle zone rurali dello Stretto e nei centri più colpiti dell’Aspromonte la mortalità fu in genere inferiore. Solo in tre paesi la percentuale delle vittime superò il 30%: a Cannitello (RC) fu del 44%, a Faro Superiore (ME) del 33%, a Salice Calabro (RC) del 31%. In altri tre paesi superò il 20%: Gallico (RC) 24%, Pace (ME) 21%, Sant’Alessio in Aspromonte (RC) 21%. In 12 località, 11 in provincia di Reggio Calabria e una in provincia di Messina, fu rilevata una percentuale di perdite umane tra il 15 e il 20% della popolazione censita.
Non è possibile determinare quanti furono i morti causati direttamente dal maremoto. Quelli esplicitamente dichiarati si aggirano attorno ai 300, ma probabilmente furono molto più numerosi.
Furono devastate sia aree urbanizzate, caratterizzate da moderne dinamiche di sviluppo economico, sia aree di agricoltura arcaica, emarginate dai flussi commerciali. La ricostruzione dell’enorme patrimonio edilizio distrutto o lesionato fu seguita dalla stampa e dall’opinione pubblica nazionale soprattutto per quanto riguarda la città di Messina, a cui non mancarono mezzi economici e competenze per avviare la fase di ripresa. Reggio Calabria trovò minore attenzione, elemento che pesò nella fase di ricostruzione della città, avviata concretamente solo una decina d’anni dopo l’evento. Tuttavia, fu soprattutto nei contesti economici più arretrati che il terremoto ridusse le già scarse opportunità di uscire dall’isolamento, generando un sentimento di disfatta collettiva che ha segnato per decenni quelle zone e pesato negativamente sui destini sociali delle popolazioni.
a cura di Dante Mariotti (INGV, Sezione di Bologna)
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